Che in Italia il cosiddetto ascensore sociale funzioni poco e male non è una sorpresa. Il figlio del notaio, del medico, del manager ha la strada spianata per seguire la strada del genitore o fare altro, ma mantenendo uno status socio economico elevato. Allo stesso modo, le origini di chi nasce in una famiglia di operai tendono a condizionarne il destino occupazionale e la posizione nella “scala sociale”. I nati fino agli anni Sessanta, complice il miracolo economico e l’aumento dei redditi pro capite, si erano però in parte emancipati da quel destino obbligato, sperimentando un continuo aumento della mobilità verso l’alto. Poi le cose sono cambiate: “Per i nati tra il 1972 e il 1986 la quota di chi sperimenta una mobilità verso il basso (26,6%) è tale da superare i livelli registrati da tutte le generazioni precedenti, inclusa quella più anziana dei nonni”, ricorda la ricercatrice Federica De Lauso nel secondo capitolo del nuovo rapporto Caritas sulla povertà, dedicato alla trasmissione intergenerazionale del disagio economico.
De Lauso riprende i dati sulla mobilità occupazionale di quattro generazioni di trentenni di cui ha dato conto l’Istat nel suo rapporto annuale del 2020. Tra i componenti dell’ultima leva, “la quota di chi sperimenta una mobilità discendente supera la quota di chi, al contrario, ne sperimenta una ascendente, marcando così una profonda discontinuità nell’esperienza storica compiuta dalle generazioni nel corso di tutto il XX secolo” (vedi grafico sotto). Insomma, non più (solo) “chi nasce povero resta povero”: tra i Millennials anche chi viene dalla classe media rischia di scivolare verso lavori a bassa qualificazione e poco pagati. Una netta inversione di tendenza, determinata da stagnazione economica e precariato diffuso, che fa peraltro il paio con un inedito aumento, rispetto alla generazione precedente, della tendenza all’immobilità nella classe di origine di chi nasce da famiglie molto benestanti o molto modeste.
Se infatti sempre per i nati dal 1972 al 1986 la probabilità di restare nella stessa classe dei genitori è mediamente 3,3 volte più elevata rispetto alla possibilità di spostarsi, dato in calo rispetto ai nati prima del 1941 (per i quali il cosiddetto “coefficiente concorrenziale” era di 5,1), le cose cambiano se si guarda solo ai figli di grandi imprenditori e alti dirigenti e a quelli di operai non qualificati. Nel primo caso, un discendente dell’alta borghesia nato tra ’72 e ’86 ha 11,7 volte più chance di rimanere “in vetta” rispetto alle possibilità per i soggetti di altra origine di raggiungere lo stesso posizionamento. Per la generazione precedente (nati tra 1957 e 1971) il coefficiente concorrenziale si era fermato a 11,4 contro il 16,3 dei loro genitori (nati tra 1942 e 1956) e il 27,4 dei nonni (nati prima del 1941). In parole povere, la tendenza a una progressiva riduzione dell’ereditarietà del privilegio si è fermata e sembra aver invertito la rotta.
Lo stesso purtroppo vale, sul versante opposto, per i discendenti della “classe meno qualificata”: la possibilità di rimanervi, per i nati a cavallo degli anni Ottanta, è 6,65 volte maggiore rispetto alla probabilità che i discendenti di altre classi possano scendervi. In questo caso il coefficiente che indica quanto è ereditaria la condizione di svantaggio è salito in maniera ancora più sensibile rispetto a quello della generazione precedente, che era di 5,05 (contro il 10,82 dei nati prima del 1941). “Questo sta a significare che le chances di salire i gradini della scala sociale per i figli nati in famiglie poste in fondo alla scala sociale diminuiscono”, sottolinea De Lauso. “Al contrario, come appena visto, aumentano le possibilità per i nati al vertice della scala sociale di rimanervi. Questi ultimi dati possono dirsi i primi alert che segnano in qualche modo un’inversione di tendenza negativa rispetto a quanto avvenuto nel corso del Novecento; cambiamenti che introducono a una nuova fase della mobilità nel nostro Paese”.
Alla luce di questi numeri non stupiscono i risultati dell’analisi su un campione rappresentativo di beneficiari Caritas per quantificare le situazioni di povertà ereditaria. Nel complesso i casi di povertà intergenerazionale pesano per il 59% e nelle Isole e nel Centro si arriva addirittura al 65,9% e al 64,4%. Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza passa come sempre per i livelli di istruzione: sono i figli delle persone meno istruite a interrompere più spesso gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in alcuni casi alla sola licenza elementare. Al contrario tra i figli di persone con laurea oltre la metà arriva a un diploma o al titolo universitario. Il filo rosso continua poi sul fronte lavorativo: più del 70% dei padri degli assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione e tra le madri è elevata l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e il 42,8% ha sperimentato una mobilità discendente. Più di un terzo (36,8%) è invece riuscito a prendere l'”ascensore” verso l’alto in termini di qualifica professionale. Ma non è bastato per conquistare un inquadramento contrattuale e retributivo corrispondente e uscire dal circolo della povertà.