È toccato al Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, chiarire in maniera inequivocabile le possibilità e i limiti della politica monetaria della Banca Centrale Europea nel contesto attuale. Con inusuale chiarezza recentemente ha osservato che: “Non l’ha generata la crisi la politica monetaria, l’ha generata una guerra terribile che deve finire, e questo è al di là della politica monetaria”.
Detto questo, poi il Governatore non ne trae le necessarie conseguenze, ma si limita alle solite rampogne sul debito pubblico elevato e sulla necessità di stringere il cappio del tasso di interesse per evitare che le aspettative inflazionistiche si radichino, come suggerisce la teoria tradizionale.
La riflessione di Ignazio Visco sarebbe adeguata se l’inflazione fosse un fenomeno monetario, come insegnava la vecchia scuola prima della crisi del 2008, oppure se fosse dovuta ad un eccesso di spesa da parte dei consumatori, cosa da escludere nel contesto post pandemia. Ma una volta che si è individuato un diverso punto di partenza, la riflessione dovrebbe puntare anche in una direzione differente.
Come si affronta un’inflazione bellica e che cosa ci insegna l’esperienza storica su questo punto? Diciamo che, semplificando al massimo, ci sono due strumenti principali che di solito vengono messi in uso. Il primo, di carattere fiscale, è la tassazione degli extra profitti. La guerra ridisegna l’economia, travolge alcuni settori economici ma crea straordinarie opportunità di guadagno per altri. Nella seconda guerra mondiale si arrivò ad una tassazione degli extra-profitti del 90% negli Usa, una super tassazione durata più di un decennio e smantellata solo nel 1964. In questo modo le conseguenze negative dell’inflazione vengono ridotte dal lato della redistribuzione della ricchezza.
Il secondo strumento, certamente più diretto ed efficace, è il controllo amministrativo sui prezzi dei beni, un calmiere su quei beni che si ritiene siano la causa della fiammata inflazionistica. In caso di evento bellico, la legge della domanda e dell’offerta viene sospesa su vari mercati e si procede con la pianificazione economica e il controllo amministrativo.
Insomma, lo Stato si prende quasi tutta l’economia. Non è allora un caso che queste due azioni straordinarie di politica economica siano state recentemente riproposte, anche se con risultati molto modesti.
Alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, stanno spingendo per una fissazione del prezzo del gas, la cui corsa folle è alla base dell’attuale crisi energetica. Qui l’accordo pare sia difficile da trovare per l’opposizione della frugale Olanda, che non vuole rinunciare alla sua posizione di privilegio, come pure al fatto di essere un paradiso fiscale per le molte imprese europee che lì stabiliscono la loro sede. Anche l’azione del Presidente americano Joe Biden – tesa a cercare un accordo per fissare a livello internazionale il prezzo del petrolio ad un valore tollerabile – si è scontrata con l’opposizione di molti Paesi, tra cui la nuovamente fidata Arabia Saudita, che non vuole rinunciare ai suoi 50 miliardi e passa di extra profitti annuali.
Nel contesto di globalizzazione spinta in cui ci troviamo, tentare di fissare un accordo al ribasso sul prezzo delle materie prime è praticamente impossibile perché ci sarà sempre qualcuno (Cina o India?) disposto a pagare di più per ottenere la preziosa fonte energetica. Ma almeno a livello di Ue qualcosina si potrebbe fare, oltre che comprare il gas Usa che costa molto caro.
Se la fissazione dei prezzi che creano l’inflazione è impresa ardua sul piano internazionale, più agevole potrebbe essere la via della tassazione degli extra profitti a livello nazionale. Su questa strada si sono mossi molti Paesi. In effetti i profitti delle compagnie petrolifere sono aumentati a due cifre e vi è un vasto supporto dell’opinione pubblica sulla necessità di una tassazione più elevata.
Qui la difficoltà è solo politica e attendiamo dal nuovo governo un segnale inequivocabile in questa direzione. Le misure del governo Draghi sono state incerte e non risolutive. Vedremo se la destra saprà fare di più e meglio in nome della sempre sbandierata lotta ai giganteschi profitti delle grandi imprese, banche e assicurazioni comprese. Il patriottismo fiscale della destra ci potrebbe sorprendere, in positivo.
Si comprende bene allora il disagio quasi stizzito del Governatore della Banca Centrale che è chiamato a svolgere un compito che non gli spetta, quello di fermare l’inflazione bellica. Aumentando a grandi passi il tasso di interesse forse l’inflazione si riduce, come predice la vecchia dottrina monetarista, ma di sicuro è l’economia quella che subirà le principali conseguenze, entrando direttamente in una fase di recessione.
In altre parole, ai manovratori della moneta nazionale toccherebbe l’ingrato compito di essere i killer dell’economia per conto di un sistema politico internazionale che non vuole assumersi le sue responsabilità. Milton Friedman, il grande economista conservatore, ci spiegava negli anni Ottanta che l’inflazione era sempre e comunque un fenomeno monetario.
La crisi del 2008 ha smentito clamorosamente questa narrazione, e ancor di più lo sta facendo la crisi attuale. L’inflazione è un fenomeno monetario nella forma, perché aumentano i prezzi, ma nella sostanza è un fenomeno politico causato dall’emergere di tensioni economiche e sociali che non spetta solo al governo della moneta risolvere, e nemmeno può nel tempo della piena globalizzazione.