Da trent’anni la scienza preme su politica e società, invocando misure di mitigazione per ridurre al minimo le emissioni di gas serra e, nel contempo, un vero sforzo per adattare l’umanità ai cambiamenti climatici innescati dal riscaldamento globale della Terra. Senza successo e senza vera consapevolezza geografica, Nord e Sud hanno finora affrontato la sfida con un atteggiamento diverso.
Il Global North si attorciglia sui fattori industriali e tecnologici del cambiamento climatico, alla ricerca di soluzioni che esaltino le economie e soddisfino soprattutto la finanza. Per contro, il Global South si concentra sui problemi e le ripercussioni per la società nel suo insieme, certamente la più vulnerabile. Il primo è un atteggiamento top-down, che parte dall’alto. La seconda è una visione bottom-up, che muove dal basso.
La conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici continua a promuovere colloqui globali sul clima. Vorrebbe mobilitare azioni significative per valutare gli impatti regionali dei cambiamenti climatici e promuovere l’innovazione in grado di fornire soluzioni non solo astratte, ma anche praticabili e praticate sul campo. Finora ha sostanzialmente fallito per ben ventisei volte. E la misura di questo fallimento è la voragine tra la percezione stessa del problema da parte del Global North e la corrispondente percezione del Global South.
La 27esima edizione della conferenza – la COP27 che si terrà a Sharm el-Sheikh, in Egitto, tra meno di un mese (dal 7 novembre al 17 novembre 2022) – aprirà un dialogo reale tra Nord e Sud? Gli appelli alla responsabilità del Nord che vari capi di stato africani hanno fatto nell’ultima sessione plenaria delle Nazioni Unite dello scorso settembre sono caduti nel vuoto pneumatico dei media occidentali.
In Italia, l’informazione era focalizzata sul presidente del Consiglio pro-tempore, premiato come statista dell’anno da una associazione – la Appeal of Conscience Foundation fondata dal rabbino Arthur Schneier – che aveva premiato in passato Shinzo Abe, François Hollande, David Cameron e Lee Myung-Bak. E le pesanti accuse sulla responsabilità climatica mosse dai leader africani – da William Ruto del Kenya a Julius Maada Wonie Bio della Sierra Leone – sono state affatto ignorate. Per esempio, secondo William Ruto, “Presto sarà troppo tardi per invertire la causa degli eventi e, quindi, anche i migliori interventi concepibili non saranno sufficienti”.
Il presidente della Sierra Leone ha chiesto una reale collaborazione globale, perché “al di là delle solite dichiarazioni, bisogna collaborare e coordinare gli sforzi di mitigazione, potenziare le infrastrutture e i sistemi di allerta precoce, investire di più per migliorare la gestione delle risorse idriche, la gestione del rischio di catastrofi e la conservazione e la protezione degli habitat naturali”.
Senza perifrasi, Wavel Ramkalawan ha invocato “azioni audaci, non più promesse né tanto meno promesse non mantenute. Dobbiamo affrontare la grave ingiustizia per cui i cittadini degli Stati meno responsabili del disastro climatico paghino per i disastri e i danni causati da altri”. Da presidente di una piccola nazione insulare, le Seychelles in Africa orientale, Ramkalawan ha parlato dell’assurda sofferenza delle piccole nazioni con una minuscola impronta di carbonio, colpite più di tutti dagli effetti del cambiamento climatico.
Ma l’intervento più accorato è stato quello di Hassan Sheikh Mohamud, presidente della Somalia. Un paese poverissimo che conosciamo bene, avendolo colonizzato a lungo. E una zona della Terra dove iniziamo a sperimentare per davvero gli effetti del cambiamento climatico, il Corno d’Africa. “La nostra gente, che ha una lunga tradizione di armoniosa convivenza con la natura e che contribuisce poco o niente alle emissioni velenose che riscaldano la terra, oggi paga con le proprie vite. Prendiamo quindi sul serio la questione della protezione dell’ambiente perché sappiamo che il cambiamento climatico è reale e viviamo oggi l’evidenza della sua realtà distruttiva e dolorosa”.
La questione dell’acqua, cinghia di trasmissione del clima che cambia, è centrale. E l’Egitto, che ospita il COP27, ha deciso di porla con forza. Non soltanto ricorrendo ad argomenti generici e situazioni astratte, ma ponendo un caso reale e assai scottante: la controversa gestione della grande diga del rinascimento etiopico sul Nilo Azzurro, la Gerd, che ha terminato in agosto la terza fase di riempimento dell’invaso.
Oggi la Gerd è la più eclatante e sfaccettata tra le questioni ambientali, economiche e sociali ad alta sensibilità climatica che richiedono collaborazione, condivisione, corresponsabilità. Saprà la comunità internazionale contribuire a una soluzione efficace, equa, solidale? Nilo, figlio di Oceano e Teti, è il Dio egiziano del fiume; il padre di numerose figlie che si mescolarono ai discendenti di Inaco, dando origine a dinastie regali in Egitto, Libia, Arabia ed Etiopia.
Legati dalla condivisione del Padre dei Fiumi, da una lunghissima vicenda storica, da una reciproca crescente interdipendenza, gli stati dell’Etiopia, del Sudan e dell’Egitto non hanno altra scelta che negoziare in buona fede per superare la sfida che hanno di fronte. Attraverso una chiara comprensione del loro destino comune, non dovrebbe essere impossibile raggiungere un accordo che soddisfi le aspirazioni di sviluppo dell’Etiopia — e, per l’energia a buon mercato che la Gerd può fornire, anche dell’intera Africa orientale — senza compromettere la sicurezza idrica dell’Egitto e del Sudan. Finora è mancata una visione audace e inclusiva in grado di elaborare un accordo di cooperazione che soddisfi tutti i paesi che condividono i doni del Nilo.
Se il Global South sarà capace di vincere questa sfida, rinunciando al protettorato del Global North, forse l’umanità potrà partire da qui, voltare pagina e affrontare per davvero la sfida climatica di questo secolo.