Appena si varca la soglia dell’imponente complesso monumentale del Labirinto della Masone si viene pervasi da una strana e potente energia. L’austerità rigorosa dell’imponente museo-mausoleo si riflette, per contrasto, nella maestosità sinuosa degli abiti scolpiti nel taffetà. Il monocromo dei mattoni che compongono la facciata esterna si dissolve nella palette caleidoscopica di vestiti fiabeschi. Non poteva esserci luogo più azzeccato di questo per ospitare una mostra di Roberto Capucci, il più schivo e superbo degli stilisti italiani. Il meno commerciale, il più chiuso alle lusinghe dell’ industria della Moda, anche il più visionario e sognatore, condottiero del gusto, creatore d’avanguardia in solitaria. E non è un caso, tra l’altro, che l’architetto della seta, come è stato ribattezzato, sia molto legato all’eclettico ideatore di questo posto magico e quasi mitologico, Franco Maria Ricci. Si conobbero nel 1991 a Vienna, in occasione della prima mostra del designer all’Armeria Imperiale Asburgica: Ricci, raffinato e coltissimo editore d’eccellenza, rimase ammaliato dal lavoro di Capucci e volle dedicargli uno dei suoi preziosissimi volumi nella collana Luxe, calme et volupté. Entrambi uomini di grande, grandissima cultura, hanno trovato nella loro amicizia il connubio perfetto di quell’inquietudine interiore che ha portato l’uno a sfidare costantemente i limiti della sartoria e l’altro a immergersi a tal punto nell’arte e nella letteratura da incarnare il perfetto esempio di mecenate rinascimentale. E ora, quasi trent’anni dopo quel primo incontro, la loro poliedricità fa magistralmente sintesi in “Seriche armature”, la mostra allestita fino al prossimo 8 gennaio 2023 nella tenuta di Fontanellato, a una manciata di minuti da Parma, e curata dalla Fondazione Roberto Capucci e dalla Fondazione Franco Maria Ricci con la collaborazione della storica dell’arte Sylvia Ferino.
Nei sontuosi saloni neoclassici al primo piano del Labirinto della Masone, gli abiti di Capucci si incastrano alla perfezione con la collezione privata di Ricci, un’esposizione permanente di opere d’arte che coprono un arco temporale che va dal Cinquecento al Novecento. L’imprinting arriva subito con l’abito “fuoco” incastonato tra due tele della seconda metà del ‘500 i cui panneggi richiamano le tinte carminio del vestito. Un’opera a tutti gli effetti, realizzata nel 1985, quando lo “scultore” della stoffa era all’apice della sua carriera: il riferimento, chiaro, potente, non è solo al fuoco in quanto elemento naturale. La costruzione stessa dell’abito – con il bustino essenziale e la gonna vaporosa – rievoca infatti immediatamente le fiamme dell’inferno che avvolgono per metà l’Ulisse dantesco nel XXVI canto della Divina Commedia. Se l’eroe greco venne punito per la sua ùbris, la tracotanza che lo spinse ad andare oltre i confini del mondo allora conosciuto; all’opposto, Capucci viene celebrato proprio per aver oltrepassato i limiti della sartoria, creando con i suoi plissé tridimensionali vere e proprie sculture di seta che hanno consacrato la moda come forma d’arte a tutti gli effetti. E poi ancora, proseguendo (sotto gli sguardi pungenti dei busti che Ricci amava particolarmente collezionare) ecco che il sublime abito “calla” trova candidamente posto accanto a una plastica scultura di Adolfo Wildt e che la coppia di vestiti “maschere” si colloca invece nella sala del “memento mori”, tra teschi, scheletri e altri macabri dipinti. Mentre poco più avanti, protetto dalle avvolgenti ali di lego di un antico mobile proveniente da una farmacia di salò, spicca la veste dedicata a Mozart, esercizio altissimo di tecnica e stile by Capucci. E poi ancora, ecco arrivare il candore degli abiti argento-dorati dalle suggestioni angeliche e i variopinti vestiti-farfalla.
Alle pareti sono appesi i bozzetti originali autografi dello stilista: è paradossale vedere come la semplicità apparente di quei disegni, accompagnati da frammenti dei tessuti di riferimento, generi poi un’esplosione di volumi in totale rottura dei canoni estetici. L’abito per Capucci è costruzione geometrica, sintesi di sperimentazioni materiche, volumi espansi, coni rovesciati e suggestioni naturali. Così come Michelangelo plasmava il marmo, lui scolpisce le sue sculture con plissé di taffetà, ideando una pratica di lavorazione in grado di conferire consistenza a questo tessuto di per sé impalpabile, tanto da spingerlo a sfidare le leggi di gravità. La bellezza di questi capi ruba l’occhio, ma calatevi per un attimo nella Roma degli anni ’50/‘60: erano avanguardia pura, completamente diversi rispetto al perbenismo della moda dell’epoca. Il successo gli arrivò infatti prima in Francia, a Parigi, all’epoca patria indiscussa dell’alta moda, e poi in America: lì le sue creazioni hanno calamitato un plotone di dive e donne di potere, da Marylin a Jacqueline Kennedy passando per Elsa Martinelli e Irene Brin. “Chi indossa una creazione di Capucci diventa immediatamente protagonista di una scena di cui è egli stesso regista: una scena che rassomiglia ai cortei trionfali e alle feste allestite nel Rinascimento e nell’età barocca in onore di principi famosi – ha commentato Sylvia Ferino -. Capucci è più che un creatore di moda: è regista, architetto e fors’anche drammaturgo, poiché i suoi abiti dettano in certo qual modo il cerimoniale e l’etichetta di corte, dando perciò forma all’avvenimento, così come fissano i diversi caratteri e i ruoli delle donne che li portano”. Tanto da affascinare un altro celebre visionario, Pier Paolo Pasolini, che fece vestire a Silvana Mangano nella sua pellicola “Teorema” proprio una reazione di Capucci. Finanche a Rita Levi Montalcini, che nel 1986 ritirò il Premio Nobel per la Medicina indossando proprio uno dei suoi capolavori, un abito di velluto nero dalle linee nette come un piano cartesiano e l’eleganza superba che deriva solo dalla conoscenza e comprensione delle leggi dell’Universo.
Quell’Universo che si dispiega a noi nella natura che ci circonda e che ben si presta a suggestioni, come quelle raccolte da Ovidio nelle sue Metamorfosi, testo di riferimento per gran parte della produzione dello stilista. Di quei miti trasformativi il maestro ha catturato nei suoi abiti l’istante della mutazione, il momento preciso in cui le cose cambiano la loro mirabolante forma. Il tutto impresso con le sgargianti tonalità delle polveri d’India, terra esotica e fascinosa meta di tanti viaggi del designer oggi 91enne. “Roberto Capucci è un trasformista, è un Houdini, è un mago, un inventore, ma soprattutto un giardiniere, il principe della natura”, ha detto di lui il collega stilista Antonio Marras. “Lui non disegna abiti, li plasma, come se fossero preziosa porcellana. Roberto Capucci è un matematico e un botanico, è ingegnere aereospaziale e il piccolo principe di Saint- Exupéry che chiede di disegnare una pecora per mangiare il baobab. Roberto Capucci esplora e narra di un mondo di abiti animati. Un mondo fatto di miti divenuti materia vivente, un universo in continua trasformazione, come una natura viva e mutante”. E con l’esuberanza dei drappeggi degli abiti a farfalla si viaggia oniricamente in una fiaba che ci porta al Mare, l’abito conclusivo della mostra. Le increspature della seta in tutte le sfumature di azzurro rievocano il ritmo delle onde del mare. Solo a guardarlo se ne può sentire il rumore, come quando si porta all’orecchio una conchiglia. O forse è solo il frusciare delle foglie del bambù circostante.
P. S. Il Labirinto della Masone è il labirinto più grande del mondo e nasce a Fontanellato da un’idea di Franco Maria Ricci – editore, designer, collezionista d’arte, bibliofilo – e da una promessa da lui fatta nel 1977 allo scrittore argentino Jorge Luis Borges, affascinato da sempre dal simbolo del labirinto. Aperto dal maggio del 2015, il Labirinto è stato concepito per essere un dedalo elegante e seducente. Un luogo di cultura (oltre al giardino ospita una biblioteca e una collezione d’arte), disteso su otto ettari di terreno, progettato da Ricci con gli architetti Pier Carlo Bontempi, che ne ha eseguito gli edifici, e Davide Dutto, che ha progettato la geometria del parco.