All’Europa serve idrogeno verde per sostituire fino a 50 miliardi di metri cubi all’anno di gas russo importato e decarbonizzare l’industria hard to abate, ovvero quella più difficile da convertire. Lo cerca in Africa, ma sono diversi gli ostacoli, a iniziare dalle risorse necessarie per produrlo. Sulla carta, per paesi come Marocco ed Egitto significa essere al centro di finanziamenti europei e avere un asset strategico in più. Allo stesso tempo, secondo diversi osservatori, la corsa all’idrogeno verde, per il quale ad oggi non esiste un’industria su vasta scala, può trasformarsi in un “accaparramento neocoloniale di risorse”, come denunciato in un dossier di Corporate Europe Observatory e Transnational Institute. Perché questo idrogeno viene ricavato da un processo di elettrolisi dell’acqua che può essere alimentato dall’elettricità proveniente da fonti rinnovabili. Ergo: per produrlo serve una enorme capacità installata di rinnovabili. Quindi sole, vento, suolo e acqua. I fondi arriverebbero dall’Europa. Ma all’Africa e, in particolare, al Maghreb conviene utilizzare le risorse a disposizione per produrre idrogeno da esportare, invece che impiegarle direttamente nella decarbonizzazione? “Dipende anche dalle modalità di attuazione della transizione” spiega a ilfattoquotidiano.it Aldo Liga, ricercatore presso l’Istituto per gli studi di politica internazionale. “In Marocco – racconta – la realizzazione di alcuni parchi solari ha costituito un problema nella gestione delle terre, tra allevatori e agricoltori. La transizione diventa problematica se fatta in maniera impositiva, senza concertazione tra governi e comunità locali. Il rischio c’è”.

I piani di Bruxelles – Per centrare i suoi target e ridurre la dipendenza dal gas russo, a maggio 2022 la Commissione europea ha presentato il nuovo piano ‘RePower Eu’, portando da 5 a 10 tonnellate l’obiettivo di produzione annuale di idrogeno verde al 2030. Si prevede che altre 10 tonnellate siano importate dall’estero e, di queste, l’80% dall’Africa, con cui diversi Paesi hanno già in cantiere dei progetti. Ci sono Egitto, Marocco, Algeria e Namibia, che vanta una media di 300 giorni di sole all’anno e dove nel 2024 sarà attiva la prima centrale elettrica a idrogeno verde di tutto il continente. L’Egitto ha firmato diversi ‘Memorandum of Understanding’ con compagnie straniere (anche italiane) nell’ottica dell’esportazione, nonostante sia stato uno dei primi Paesi nella regione MENA (Medio Oriente e Africa del Nord) a utilizzare l’idrogeno verde.

Dall’Egitto al Marocco – Tra i Paesi europei più avanti nella caccia all’idrogeno verde prodotto in Africa c’è la Germania. Nel 2021 Anja Karliczek, l’ex ministro della Ricerca tedesco, ha siglato una partnership con la Namibia, annunciando un investimento di 40 milioni di euro per finanziare studi sulle migliori tecnologie e sui siti dove poter produrre idrogeno verde. Si tratta “di transizioni talmente costose – spiega Liga – che non possono essere gestite in maniera autonoma da questi Paesi”. Una joint venture tra la britannica Nicholas Holding e la tedesca Enertrag gestirà, invece, il progetto Hyphen Hydrogen Energyper da 9,4 miliardi di dollari: nel deserto Namib si dovrebbero produrre 300mila tonnellate all’anno di idrogeno (non solo verde). La Germania ha firmato anche accordi con il Marocco, mentre il ‘partenariato verde’ sancisce una nuova collaborazione tra il Paese nordafricano e l’Ue. “Ormai è consuetudine siglare partnership per lo sviluppo di questa filiera, ma – osserva il ricercatore dell’Ispi – i grandi accordi sono sul gas. Quando in Egitto – racconta – la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha annunciato la nascita di una Mediterranean Hydrogen Partnership, lo ha fatto mentre si firmava un accordo sull’esportazione di gas naturale”. Anche in Algeria l’idrogeno passa dal fossile, da cui dipende metà del bilancio del Paese. La valutazione ‘di un progetto pilota di idrogeno verde a Bir Rebaa North, nel deserto algerino’ è prevista nell’accordo tra Eni e Sonatrach per aumentare le importazioni di gas in Italia attraverso il gasdotto TransMed. Eni ha poi firmato un accordo con le società energetiche egiziane EEHC ed EGAS per realizzare degli studi di fattibilità sulla produzione di idrogeno sia verde che blu.

Le risorse necessarie – Per soddisfare la domanda europea di idrogeno verde i Paesi del Maghreb dovrebbero aumentare in modo esponenziale la loro capacità installata di rinnovabili. Nel 2021, il Marocco ha presentato una roadmap. “Secondo lo scenario base – scrive Liga in un’analisi pubblicata per l’Ispi – per rispondere alla domanda potenziale di idrogeno andrebbero sviluppati 8 GW aggiuntivi di energia rinnovabile entro il 2030, 36,7 GW entro il 2040 e 78,2 GW entro il 2050”. Al momento il Paese è a 3,5 gigawatt. In Egitto servirebbero 36 GW, mentre ad oggi (idroelettrico incluso) la capacità è di 6,2 GW. Il dossier di Corporate Europe Observatory e Transnational Institute si sofferma sul caso dell’Algeria: se il Paese volesse sostituire i ricavi delle esportazioni di gas con idrogeno verde, “dovrebbe installare 500 GW di pannelli solari, più di mille volte la capacità attuale”. Le rinnovabili, inoltre, hanno una natura intermittente. Il problema può essere risolto collegando le centrali a una rete elettrica principale alimentata, però, da combustibili fossili. La produzione di idrogeno verde richiede molta elettricità e acqua, che si aggiungono a disponibilità di suolo e materie prime. “Durante l’elettrolisi – spiega il ricercatore – circa il 40% dell’energia elettrica utilizzata viene persa per il processo, durante il quale occorrono 9 litri di acqua per ogni chilogrammo di idrogeno”. Un elemento importante in Paesi ad alto stress idrico, come Marocco ed Egitto.

I timori del saccheggio – Insomma, i Paesi africani dovrebbero utilizzare il loro potenziale per decarbonizzare l’industria europea anziché la loro. “È vero – spiega Liga – ma i finanziamenti europei dovrebbero sostenere la loro decarbonizzazione. D’altro canto l’industria europea è molto più inquinante di quella africana”. Nella lotta globale al cambiamento climatico, dunque, si considera prioritario ridurre le emissioni di un Paese come la Germania. Nel prossimo futuro, però, si immagina anche per l’Africa un aumento del consumo interno di energia estremamente alto, che potrebbe far crescere anche le emissioni. L’aver esportato importanti risorse in Europa, non rischia di tradursi per alcuni Paesi in un mancato accesso all’energia? “Potrebbe essere un problema per i Paesi dell’Africa Subsahariana, ma quando si parla di eventuali esportazioni di idrogeno, in genere si fa riferimento al Maghreb”. La convenienza va valutata, comunque, caso per caso. “Dipende dal Paese – replica – dalla quantità di idrogeno (e quindi di rinnovabili) che occorrerà produrre, dagli impatti degli impianti e da come verranno mitigati nella maniera più equa e giusta per le comunità locali”.

Non esiste una industria dell’idrogeno verde – Secondo il ricercatore “è difficile fare previsioni in un settore così poco sviluppato”. Di fatto, oggi meno dell’1% dell’idrogeno prodotto in Europa è verde, quasi tutto deriva da combustibili fossili. Da qui una considerazione: “Se abbiamo dieci anni per cercare di rientrare nei target climatici dell’Accordo di Parigi, non possiamo fare affidamento sull’idrogeno verde per il quale, ad oggi, non è stata sviluppata un’industria su larga scala. Solo nei prossimi decenni potrà forse contribuire alla transizione ecologica”. E si pone un altro tema: oltre che a giustificare la costruzione di nuove infrastrutture e l’adattamento di quelle sfruttate dal settore dei combustibili fossili, l’idrogeno verde potrebbe aprire la strada a quello blu ’low carbon’, ricavato dal gas con sequestro della CO2. Nel dossier ‘L’illusione dell’idrogeno verde’, ReCommon ricorda che, pochi giorni dopo il lancio di RePower EU, trentuno corporation (anche l’italiana Snam) riunite nella European Hydrogen Backbone Initiative hanno presentato il loro piano di investimenti per un mercato dell’idrogeno, basato su cinque corridoi d’importazione. Il primo collega proprio l’Italia al Nord Africa. La Snam è in prima linea, insieme alle controllate austriache Tag e Gca e ad altre aziende europee. “Non si parla – spiega ReCommon – di produrre solo per settori hard to abate”, ma di generare “quanto più idrogeno possibile, di ogni colore”.

Il nodo dei costi – Un altro ostacolo è quello relativo ai costi di produzione: secondo Corporate Europe Observatory e Transnational Institute, sono in media 11 volte superiori a quelli del gas. Dovuti alla realizzazione di impianti rinnovabili ed elettrolizzatori, al rafforzamento della rete, ma anche a stoccaggio e trasporto. “Le esportazioni dall’Africa potrebbero avvenire in tre modi” spiega Liga. Per esempio, tramite la costruzione di gasdotti (o l’adattamento delle infrastrutture esistenti), oppure attraverso la liquefazione e la successiva rigassificazione. Il Marocco e l’Egitto stanno studiano la possibilità di farlo tramite petroliere, ma nel rapporto di Corporate Europe Observatory e Transnational Institute si fa presente che “per ottenere idrogeno in forma liquida serve tre volte l’energia necessaria a liquefare il Gnl”. Quindi queste navi trasporterebbero, a parità di volume, solo il 27% dell’energia rispetto a quella prodotta con gas naturale. La terza modalità è quella del trasporto in forma di ammoniaca, da riconvertire in idrogeno una volta a destinazione, utilizzando tecnologie e infrastrutture esistenti. La cui convenienza è tutta da valutare.

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