La politica fiscale, specie in tempi di pandemia e di guerra, è una mina vagante. Ne ha fatto le spese la premier inglese, Liz Truss, che partita lancia in resta con le tradizionali politiche del liberismo conservatore – meno tasse per i ricchi – non ha avuto il successo sperato stile Margaret Thatcher, ma ha dovuto fare una precipitosa, quanto abbastanza ridicola marcia indietro.
La domanda che ci si può porre è se succederà lo stesso alla nostra prima ministra in pectore, Giorgia Meloni. Andrà anch’essa a schiantarsi contro il muro della realtà economica e dei mercati, dopo anni di demagogia elettorale esercitata comodamente dall’opposizione? Certo il caso italiano è diverso perché non assisteremo, nel caso di una politica fiscale stile Truss, ad una repentina svalutazione del cambio e ad una fuga dei capitali. Per una volta la fortezza Europa costituirà una solida difesa, anche per chi la Ue l’ha sempre considerata un avversario da abbattere.
Sulla strada impervia della politica fiscale, per Meloni la principale minaccia viene dal suo alleato, la Lega di Salvini. La Lega si era presentata agli elettori con due assi, almeno in teoria, pigliatutto: la flat tax per gli autonomi ad elevato fatturato (circa un milione di soggetti) e l’abbassamento dell’età pensionabile per tutti. Dato il magrissimo risultato elettorale, possiamo dire che gli italiani abbiano ampiamente bocciato le idee di una ex Lega Nord che ormai ha perso la sua identità politica e culturale.
Le due proposte sonoramente respinte dagli elettori di destra sembrano però essere al centro del programma del prossimo governo Meloni. Si tratta tuttavia di proposte molto velenose e problematiche per il nuovo partito di maggioranza relativa, sul piano della sua identità morale e culturale, prima che su quello economico. Cerchiamo di capire perché.
La proposta di una flat tax stile leghista, cioè limitata ai lavoratori autonomi ad elevato fatturato/reddito che vedrebbero dimezzato il loro carico fiscale a spese di tutti gli altri contribuenti, non è in sintonia con le corde di Fratelli d’Italia. Per due motivi. Il primo è dato dall’ovvia considerazione dell’iniquo vantaggio fiscale per questo segmento di contribuenti, e il secondo consiste nel fatto che proprio nell’area del lavoro autonomo si annida il male endemico dell’evasione fiscale.
L’ultima relazione ministeriale del 2021 e relativa ai redditi del 2019 stimava un’evasione tra i lavoratori autonomi e tra gli imprenditori pari al 70% del reddito imponibile ai fini Irpef, per un valore di circa 32 miliardi di euro. Su questo punto la destra conservatrice e nazionalista italiana non può che essere in difficoltà dal momento che ha sempre enfatizzato i principi di legalità e di senso dello Stato. La prima lealtà di un cittadino è quella fiscale e un cedimento su questo punto sarebbe veramente poco giustificabile per un partito che vede nell’assolvimento dei doveri dei cittadini, prima che nei loro diritti, un fattore centrale dell’identità e della coesione nazionale.
In altri termini, la flat tax leghista è molto lontana dal Dna del partito di Meloni e rischia di stravolgerlo. Se un elettore su quattro le ha dato il suo consenso non è certo per ridurre le tasse ad una fascia di cittadini benestanti oppure per allargare le maglie del lassismo fiscale, con condoni o altro. Casomai dovrebbe essere il contrario. Quindi non solo l’estensione del privilegio fiscale fino a 100mila euro sarebbe un notevole costo per lo Stato, qualificabile in 5-6 miliardi all’anno, con risorse da reperire da qualche parte, ma indebolirebbe l’immagine di una destra in grado di fare quello che la sinistra, a suo dire naturalmente, non è stata in grado di ottenere, cioè un fisco più equo ed efficiente.
Il ragionamento sulla spesa pensionistica presenta problemi ancora più acuti, anche qui di stampo morale prima che economico relativamente alla sostenibilità, sia nel breve che nel lungo periodo, del pensionamento anticipato cavalcato in maniera ossessiva da Salvini. Intanto vi è una questione di equità intergenerazionale ampiamente nota per cui, piaccia o no la legge Fornero, la pensione deve essere commisurata ai contributi versati. Da qui non si può tornare indietro se non vogliamo caricare le generazioni future di oneri insostenibili.
Ma vi è anche un secondo aspetto più immediato. Il pensionato o la pensionata che può lasciare il lavoro a 60 anni, secondo le proposte che circolano, non credo che passerà il resto della sua vita sul divano, a sistemare l’orto o a chiacchierare con amici e amiche. Come le statistiche ci dimostrano per alcune professioni, una buona parte – oltre il 50% in molti casi – di coloro che ottengono la pensione continua a lavorare, spesso proseguendo l’attività precedente. Quindi, di fatto, l’anticipo pensionistico previsto creerebbe un esercito di riserva di pensionati-lavoratori, persone che di fatto possono godere di un doppio reddito a spese di tutti i contribuenti, ottenendo un poco giustificabile vantaggio economico.
E qui si apre un altro versante del problema, ancora etico prima che finanziario. Questi pensionati, a questo punto precoci, costerebbero molti soldi all’erario, svariate decine di miliardi considerando la spesa cumulata. Questi soldi, necessariamente, dovranno essere prelevati, per mantenere il sistema previdenziale in un qualche equilibrio finanziario, dai pensionati anziani, diciamo da quelli oltre i 75 anni. Persone che sicuramente avranno più bisogno di servizi sanitari, sociali o di altro tipo. Le risorse che il governo darà ai pensionati precoci saranno per necessità tolte ai pensionati anziani semplicemente riducendo i servizi.
Quindi il conflitto redistributivo che è tipico della spesa pensionistica non sarà più tra giovani e anziani, come si pensava un tempo, ma anche tra pensionati precoci – che con due redditi miglioreranno sicuramente il loro tenore di vita – e i pensionati anziani, che si troveranno dei servizi pubblici ridotti oppure del tutto eliminati perché poco finanziati. Non credo che sia quello che la destra nazionalista e sociale ha in mente, almeno se uno ha la pazienza di leggersi il programma elettorale di Fratelli d’Italia.
Vedremo se, forte del suo successo elettorale, Meloni sarà in grado di frenare le indecenti proposte, prima moralmente che economicamente, di politica fiscale della Lega di Salvini. Se lo farà, potrà sicuramente ottenere risorse per affrontare alcuni nodi strutturali dell’economia italiana, che non sono certo quelli di abbassare le tasse per professionisti benestanti oppure consentire la formazione di legioni di pensionati precoci. Se non lo farà, non si schianterà di colpo come il suo pari inglese, perché la nostra economia non è così esposta ai mercati internazionali. Probabilmente comincerà lentamente ad imbarcare acqua e ad un certo punto affonderà, come è successo ai precedenti governi.
Intanto bisogna trovare subito 25 miliardi per confermare i sussidi alle imprese e alle famiglie che il governo precedente profeticamente aveva previsto solo per il 2022, e che quindi a fine anno scadranno. Questo è già un primo banco di prova per il nuovo ministro del Mef. Vediamo chi sarà disponibile a fare il cireneo di turno.