Nel cast Louis Garrel e Isabelle Huppert. Il regista: "Oggi a mio parere avrebbe fatto il fotoreporter di guerra, per osservare gli ultimi sulla terra"
Cinquantatre anni di gestazione e quattro di tormenti “caravaggeschi” per confezionare la propria visione cinematografica sul più geniale e ribelle pittore italiano, e non solo italiano. Così si è generata L’ombra di Caravaggio secondo Michele Placido oggi fuori concorso alla 17ma Festa del Cinema di Roma, un lavoro che supera la biografia dell’artista e s’informa drammaturgicamente nel rapporto con un opposto e contrario, appunto la sua Ombra. Se questo approccio duale nasce da un’idea degli sceneggiatori Petraglia e Signorile, la fiamma primigenia sul Merisi da parte di Placido si è accesa quando il regista e attore pugliese, appena arrivato a Roma, si mise a riflettere sotto la statua di Giordano Bruno, “immaginavo un dialogo tra Caravaggio e Bruno”. I due ribelli, appunto, che profetavano “oltre”, volgendo lo sguardo verso “quelle persone, quegli ultimi, reietti ed emarginati, che nel caso di Caravaggio avrebbero ispirato i suoi santi. Un percorso il suo simile a quello che secoli dopo avrebbe fatto Pasolini”.
L’ombra di Caravaggio, però, non è un fantasma, bensì una persona vera e propria incarnata da un prelato incaricato dalla curia romana di indagare sulla vita del pittore, già reo di omicidio e quindi in esilio. Questi è interpretato da Louis Garrel, sorta di “alterego in negativo” dell’artista interpretato invece da Riccardo Scamarcio. Il film, che vedremo nelle sale italiane dal 3 novembre, si articola in un percorso ricco di flashback, tra fughe e ritorni, incontri e scontri, atto alla scoperta dell’uomo Michelangelo Merisi, prima che del pittore “attorno alla cui estetica già tutto si conosce”, sostiene Placido.
Nel suo kolossal ambizioso, sontuoso, di alto valore co-produttivo tra Italia e Francia (nel cast anche Isabelle Huppert nei panni della marchesa Costanza Colonna), assolutamente attento a restituire visivamente le atmosfere cromatiche e in chiaroscuro delle tele di Caravaggio, Michele Placido intende con chiarezza parlare alla coscienza contemporanea, mettendo in scena un uomo ribelle, selvaggio, controcorrente, radicale eppure assolutamente mistico che – come giustamente afferma Garrel – “era un avanguardista davanti a un pubblico di fascisti che non lo capivano, e anzi lo temevano” a cui fa eco altrettanto correttamente Scamarcio che si sente accomunato al Merisi nella “provenienza dalla provincia lasciata a favore di Roma sotto la spinta di una passione incontrollabile: per me la recitazione, per lui la pittura, che all’epoca era l’arte mainstream capace di condizionare le persone”. Fragile e carismatico, seduttore e sedotto da donne, ragazzi, ricchi e poveri, Caravaggio per la Huppert, che recita nel film doppiata (a differenza di Garrel che invece parla il “proprio” italiano) è un “personaggio scespiriano e dostoevskiano, protagonista di una tragedia classica nella cui vita convivono le forze del bene e del male portate all’estremo. Oggi cosa avrebbe fatto uno come lui?” Si chiede l’attrice parigina ricevendo la risposta subitanea di Placido “a mio parere avrebbe fatto il fotoreporter di guerra, per osservare gli ultimi sulla terra”. Eppure, nonostante ogni intenzione eccelsa, questo ennesimo ritratto del genio lombardo che ha cambiato la Storia dell’arte sembra non incidere negli animi quanto e come era nei desiderata dei suoi autori: troppo ben confezionato, raffinato, pulito.. lontano forse dal modus vivendi e operandi del Merisi stesso, e così diverso – solo per fare un esempio – dalle folgoranti e stridenti intuizioni di un artista come Derek Jarman che nel 1986 divise critica e pubblico col suo Caravaggio, dove Lena era una giovanissima esordiente dal nome Tilda Swinton.