Quando la tv racconta storie di emarginazione, esclusione, detenzione o reintegrazione, cade quasi sempre in un equivoco. Per un legittimo sentimento di rispetto e di pudore la costruzione del discorso procede tra reticenze, allusioni e omissioni al punto che le attese dello spettatore finiscono spesso deluse. Per nostra fortuna succede proprio tutto il contrario in un documentario visibile da mercoledì 19 ottobre su Discovery+. Si tratta di un prodotto ideato e diretto da Erika Brenna e “interpretato” da Cristiana Capotondi narratrice, intervistatrice, confidente partecipe e appassionata dei protagonisti di quattro storie di caduta nell’abisso e di risalita, di riscatto, di “Second chance” come recita il titolo con il solito vezzo anglofono. (A proposito, spero che il nuovo governo che si annuncia così patriottico metta una buona parola per limitare l’uso di locuzioni straniere laddove si possono usare senza problemi quelle italiane).
Ma torniamo al documentario che merita tutta la nostra attenzione. Come si diceva, qui senza remore, senza falsi pudori, senza allusioni di difficile decodificazione, ma con sincerità, concretezza e dovizia di particolari delicati e significativi si raccontano quattro vicende terribili e “a lieto fine”, se si può usare questa definizione che appare un po’ banale in un simile contesto. A narrarle in una serie di conversazioni dense di informazioni e di riflessioni con Cristiana sono i protagonisti che le hanno vissute. Ci sono Luca e Giulia – qui riporto solo i nomi di battesimo a differenza di quanto accade nel doc – entrambi omicidi, che arrivati nel famoso carcere di Bollate (giustamente famoso, lo sottolineo per esperienza personale non di detenuto) decidono di frequentare il corso di informatica tenuto da Lorenzo, uno dei tanti volontari che operano in quella struttura. E la loro vita cambia: Luca ora lavora ogni giorno per cinque ore fuori dal carcere e insegna a sua volta la disciplina di cui è diventato esperto ai giovani del Beccaria; Giulia pensa che potrà sfruttare quello che ha imparato per reinserirsi degnamente nella società, una volta scontata la lunga pena. Giulio non potrà, perché per lui fine pena è mai.
Poi il doc si sposta a Roma dove incontriamo Renato e una famiglia di rifugiati siriani condotti a una seconda vita dalla Comunità di Sant’Egidio, più precisamente dal progetto Housing first illustrato con precisione da Filippo. La seconda opportunità parte innanzitutto dalla ricerca di una casa. Così è per Renato che ha perso tutto aprendo un bar a Monteverde che non ha mai avuto grande successo e che la pandemia ha affossato. Così è per Nour, Hassan e il loro bimbo Riad, che ci raccontano la loro storia di cittadini benestanti diventati profughi in seguito ai terribili avvenimenti in Siria. Finalmente grazie al loro racconto acquistano un significato concreto quelle parole che tutti i giorni sentiamo in forma un po’ vaga, generica: cosa sono i trafficanti a cui hanno dato tutto il denaro ricavato dalla vendita di due alloggi, cos’è un viaggio in camion nel deserto siriano dove la polvere ti può asfissiare, cos’è un corridoio umanitario e cosa riesce a inventarsi Papa Francesco per risolvere i problemi.
Ora dopo sei anni Hassan è riuscito a convertire la sua laurea in architettura ed esercita la sua professione e lo stesso ha fatto Nour ricercatrice in biologia molecolare al Bambin Gesù. Tutto è stato possibile grazie all’Housing First, perché la casa è la prima condizione per la vita, il primo diritto di cui tutti devono godere. Ce lo ricorda nel corso del documentario don Gino Rigoldi, aggiungendo che la beneficenza può andar bene all’inizio di un intervento, ma andando avanti “diventa una malattia”. Parole sante, o più laicamente parole che interpretano magnificamente lo spirito della Costituzione.