La compagnia teatrale bolognese rilegge - in anteprima al Festival VIE 2022 - il testo del filosofo tedesco (o viceversa?) alla luce della lotta di classe dei 422 operai di Campi Bisenzio. Nessuno snobismo autoreferenziale e uno sguardo vivo, rispettoso e sorpreso sugli oppressi di oggi
Quel che resta de… Il Capitale. La prima impressione di fronte all’opera teatrale della compagnia Kepler-452, vista in anteprima all’Arena del Sole di Bologna durante il Festival VIE, che si rifà al testo di Karl Marx, è quella di trovarsi di fronte ad una responsabile, onesta e viva sorpresa dello sguardo sia a livello politico che drammaturgico. Del resto Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi (che con Paola Aiello formano la giovane compagnia) hanno fatto intendere fin dai loro esordi (si veda il loro Giardino dei ciliegi o F.Perdere le cose) che portano in scena il mondo “reale” con le loro storie e i loro traumi, ma è come se loro, da drammaturghi under 40, non ne fossero antropologicamente parte, e facessero un passo di lato per osservare meglio quel frammento di reale. Un “noi non siamo” quindi “cerchiamo di capire loro”. Già l’assenza di questa programmatica ombelicalità accigliata o dramma da salotto borghese rende sempre la sfida concettuale di Kepler-452 molto stimolante. A questo giro, vuoi per l’area semantica Covid-pandemia, con cui il contesto cultural-progressista fatica ancora a capirci qualcosa, ecco che sulla ruota Kepler-452 sbuca il tema devastante, anzi un vero e proprio rimosso, ovvero il macigno del mondo del lavoro.
Borghesi rimane sempre come defilato, figura in ombra, saltuario tentativo di doppio (i gesti meccanici di Felice), guida prospettica del discorso generale, fino a quando prorompe in un monologo rabbioso sull’autoreferenzialità di un sistema culturale al quale appartiene (sostanzialmente la borghesia progressista di una città eternamente progressista come Bologna) che ha come dimenticato il substrato popolare e il sangue della lotta. Un j’accuse che parte dalla dirompente sensazione di odio verso il proprio milieu socio-economico appena i due teatranti tornano a casa dall’occupazione della Gkn, passando per una sciabolata all’uso della schuwa o alla solita partita di giro goffmaniana dei circoletti critici e produttivi del mondo del teatro odierno, fino al simbolico busto di Lenin piazzato sulla credenza di mamme e babbi borghesi. Così se il confronto, sudditanza, riflesso con Il Capitale di Marx (“le 1126 pagine che nessuno ha mai letto”) nel circumnavigare la vita operaia sul palco sembra come sfuggire, slittare, quasi nascondersi dietro ad una momentanea sospensione del tempo/occupazione della fabbrica, ecco che l’ombra lunga del saggio rivoluzionario marxiano sembra rifulgere come intuizione generale di rilettura dei rapporti tra oppressore e oppresso, tra sfruttamento e profitto, facendo danni, tirando sberle, producendo crepe soprattutto sul versante di quella classe borghese a digiuno per nascita dal conflitto e spesso (in)consapevole soggetto artefice nel crearlo. E se per Kepler 452 alla fine Il Capitale è uno “spettacolo sul tempo, su chi lo possiede, lo vende, lo acquista, lo libera”, allo spettatore dopo l’ora e quaranta di spettacolo tocca sbattere contro l’inevitabilità assassina del capitale con una riflessione in continuo aggiornamento sul “cosa si è disposti a cedere” affinché tutto questo martirio di vite e lavoro non accada più. Con una postilla dolente: peccato si ironizzi così brutalmente sul veganesimo. Come spiegava Adorno, in mezzo ad una mattanza di oppressi non c’è più elementare figura di silenzioso e bastonato sfruttato dal capitale se non quella dell’animale.