Società

Prima guerra mondiale, sui monti che serbano quella memoria meglio una visita fuori stagione

Immaginiamo una linea del fronte estesa per oltre seicento chilometri, attraverso ghiacciai, creste e altipiani, dallo Stelvio-Ortles-Cevedale-Adamello alle pietraie del Carso. Immaginiamo una montagna sventrata dall’ecrasite, bucata da gallerie, rigata da trincee. E immaginiamo ragazzi che arrivano da posti lontani, che parlano dialetti incomprensibili, che non hanno mai visto la neve e che non sanno perché stringono un’arma. Dopo quarantun mesi di scontri saranno seicentomila a non tornare.

Un intero secolo non è bastato ad assorbire il legno dei baraccamenti, il ferro del filo spinato e il cuoio delle giberne che ancora emergono tra le pietre. Negli anni Novanta, gruppi di ambientalisti si mobilitavano per eliminare quella memoria dal sapore di morte che, a detta loro, deturpava le Alpi: l’iniziativa “Action Barbeles” mirava a rimuovere fili spinati, bunker e altre ferite ancora aperte. Ma il vento stava cambiando e dopo poco emerse una sensibilità opposta. Il 7 marzo del 2001 fu varata la legge per la “Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale”.

Da allora trincee, fili spinati, baraccamenti furono consegnati, come reliquie della storia, nelle mani di appositi comitati. Le Dolomiti, per esempio, sono diventate un immenso percorso museale, con circa mille chilometri di sentieri dedicati, linee di difesa e camminamenti resi agibili, e sono stati inseriti segnavia, pannelli, piccoli musei con ricostruzioni sceniche nei luoghi caldi dello scontro.

In certe giornate d’estate, può capitare di assistere alle repliche delle battaglie, con centinai di figuranti stretti in inappuntabili divise e gli echi degli spari a salve tra le crode. È il kitsch che ci insegue in luoghi rimasti in silenzio per anni. Meglio una visita fuori stagione, magari d’autunno come adesso, senza baldorie e applausi rivolti ai nuovi soldatini della domenica.