Renato Olino, l’ex carabiniere che rivelò le torture contro tre innocenti per la strage alla caserma di Alcamo Marina (27 gennaio 1976), chiede all’Arma di essere riconosciuto come vittima del dovere per i danni morali subiti nel corso degli anni, uno status fino ad oggi riservato solo a chi patisce conseguenze fisiche per aver svolto il proprio lavoro. Napoletano, Olino si arruolò nel ’68 ma lasciò la divisa nel novembre del ’76, dopo aver preso atto dei metodi violenti usati al tempo. Quando venne spedito ad Alcamo marina dal suo capo, il generale Gustavo Pignero, l’Arma era in subbuglio: due carabinieri era stato brutalmente assassinati, tutto faceva pensare ad un attacco terroristico, per questo inviarono da Napoli, in fretta e furia, uomini della divisione specializzata.
In quella squadra c’era anche Olino che nei giorni successivi si rese conto che ai sospettati per la strage alla Caserma – dove vennero uccisi i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo – veniva riservata la “cassetta”: “Si chiamava così, e si intendeva che venivano bloccati braccia e gambe, imbuto in bocca e giù acqua e sale, ogni tanto qualche scarica di elettricità. Dormivo in caserma, sentii le urla”. Proprio in quella circostanza, precisamente il giorno prima dell’arresto (10 febbraio ’76) di Giuseppe Vesco, il primo dei tre giovani che vennero poi ingiustamente incriminati per la strage, ad Olino venne chiesto di prendere un’arma e di portarla nel luogo dove tre ladri si era schiantati a bordo di un’auto rubata: inseguiti a gran velocità, il guidatore Giuseppe Tarantola venne colpito a morte dagli agenti che però simularono una azione difensiva facendo ritrovare l’arma sotto l’auto: “Mi dissero di gettarla lì, poi venne chiamato il giudice e la questione venne chiusa. Avevo autentico amore per l’Arma e non volevo fare nulla per colpire la reputazione dell’istituzione e dei miei colleghi ma non sopportavo quei fatti: portai una relazione scritta nel novembre del ’76 al comando di Napoli, sperando che fosse l’Arma ad accompagnarmi in un percorso di denuncia ma questo non avvenne. Mi dimisi in un certo senso con la coscienza a posto, sapendo che i tre giovani di Alcamo erano stati assolti da ogni accusa“. I tre, infatti, vennero condannati in appello.
Nel frattempo la vita dell’ex sotto ufficiale prese un’altra direzione, si mise a fare il salumiere, in famiglia non capivano, per anni hanno pensato che fosse un lavoro di copertura: sua madre, orgogliosa della divisa ha continuato a pensarla sempre così. Non parlò più di Alcamo marina fino a quando diversi anni dopo, “vedendo Sicilia nera, una trasmissione di Carlo Lucarelli (era una puntata di Blu Notte, sulla Rai ndr), appresi della terribile sorte dei tre giovani e ne rimasi sconvolto, decidendo a quel punto di parlare con la magistratura. Raccontai anche che in passato a Palermo, quando ero responsabile dei rilievi tecnici di polizia giudiziaria nel gruppo del colonnello Giuseppe Russo, ero stato indiretto testimone di metodi usati nei confronti anche di un criminale come Leoluca Bagarella, dal quale Russo voleva sapere, senza successo, dove si nascondesse Totò Riina, e di un piccolo delinquente, Giuseppe Filippi, dal quale si volevano notizie sui rapitori di un professore universitario di nome Nicola Campisi, rapito all’inizio del luglio ’75, per il quale era stato sborsato un riscatto di 700 milioni di lire. Filippi, sottoposto anche lui alla ‘cassetta’, disse che avrebbe portato i Carabinieri nel luogo dove era custodito il bottino, arrivati, chiese di essere liberato dalle manette e riuscì a scappare. Il fatto mi aveva turbato, tornai a Napoli con la mia prima lettera di dimissioni che rientrò quando il generale Pignero, qualche mese prima della strage di Alcamo, mi telefonò dicendomi che gli avevano parlato bene di me e che mi voleva nel nuovo gruppo antiterrorismo che stavano costituendo”. Olino non si sottrasse a quella lusinga. “Russo era un autentico eroe per l’Arma, ripensando adesso a quegli anni, non era facile, forse impossibile, avere la forza di andare da solo contro i Carabinieri, mi avrebbero preso per pazzo. Scelsi di andarmene, lasciando il mestiere che avevo sognato da sempre”. In attesa dell’esito della sua battaglia legale per il riconoscimento di presunto danni morali, oggi Olino è padre di tre figli e militante delle Agende rosse, il movimento fondato da Salvatore Borsellino.