Mario Draghi ha fatto un piccolo dispetto al governo entrante, forse memore dell’opera di demolizione di qualche partito del suo progetto di riordino del fisco, la famosa delega fiscale, miseramente naufragato a settembre.
Nella pubblicazione della Nota di Aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza), la cui pubblicazione deve avvenire entro il 27 settembre di ogni anno e che delinea le strategie economiche e fiscali, il governo si è dimenticato di allegare i due documenti sull’evasione fiscale e sulle tax expenditures (gli sconti fiscali). Si tratta di allegati importanti perché contribuiscono a definire le premesse per la strategia macroeconomica dell’azione governativa.
Il ministro si è schernito dietro l’istanza di una cortesia istituzionale nei confronti del nuovo inquilino. La mancata pubblicazione ha sollevato una piccola bolla polemica perché qualcuno attendeva con una certa curiosità i dati relativi all’erosione della base imponibile causata, in particolare, dalla flat tax degli autonomi.
Concentriamoci su questo punto.
Anche se naturalmente è molto utile e doveroso avere i dati aggiornati al 2021, per quanto riguarda la flat tax degli autonomi le sorprese sono ben poche. Anzi, è questa sorpresa che sorprende, per svolazzare un po’ con le parole. Gli esiti del favoritismo fiscale verso questa categoria di contribuenti sono già ben evidenziati nel documento sulle statistiche dell’Irpef liberamente disponibili sul sito del Mef (Ministero dell’economia e delle finanze) relativi all’anno fiscale 2020.
Vediamo alcuni numeri. In primo luogo, i contribuenti a partita Iva in Italia sono circa 4 milioni. Di questi, circa 900.000 mila aderivano alla flat tax del senatore Visco, fin dal lontano 2008 quando fu introdotta. Con l’estensione del fatturato a 65.000 euro prevista con la finanziaria del 2018, la platea si è estesa a 1,6 milioni di contribuenti. Quindi possiamo dire che un lavoratore autonomo su due si trova ora in questa condizione di vantaggio fiscale con l’aliquota Irpef unica e ridotta al 15%, mentre per tutti gli altri l’aliquota minima è del 23%.
Questo passaggio quasi epocale al nuovo sistema è stato determinato, ovviamente, dalla riduzione del carico fiscale, stimabile da una a tre mensilità se prendiamo come pietra di paragone uno stipendio netto di 1.500 euro, con un mancato gettito per l’erario di circa 2 miliardi di euro. Nello specifico, nel 2020, stando dai dati del Mef, un lavoratore autonomo forfettario ha dichiarato un reddito medio annuale di 12.961 euro, per una imposta media di 1.566, sempre annuale.
Per avere un’idea del vantaggio economico conseguito, nello stesso anno il reddito medio di un lavoratore dipendente è stato di 21.800 euro, con una tassazione di 5.580, e quello di un pensionato di 18.290, con una tassazione di 5.080. Quindi nessuna sorpresa, la flat tax per gli autonomi è una comfort zone fiscale creata dalla classe politica.
Ora si vuole estendere questa area di privilegio fino ai 100.000 euro di fatturato. Quale sarà il risultato? Anche qui poche sorprese e molta ipocrisia. Gli autonomi ad elevato reddito che passeranno al nuovo regime potrebbero essere quasi un milione, ma attendiamo su questo la relazione ministeriale, con un beneficio fiscale annuale quantificabile in un aumento da tre a sei mensilità.
Il buco per le casse dello Stato potrà essere di 5 o 6 miliardi di mancato gettito. Il solco tra contribuenti diventerà un abisso, a questo punto non giustificabile e non certo accettabile. Ci sono vie alternative a questo demenziale progetto fiscale, pur conservandone alcune caratteristiche? Certamente sì. Per far questo dobbiamo tornare però indietro nel tempo e in particolare alla genealogia della flat tax degli autonomi a partita Iva.
Con buona pace delle narrazioni, a volte veramente sgangherate, della destra, questa flat tax è stata pensata e introdotta dalla sinistra. Siamo nel 2008 e la Riforma Visco, tra gli altri provvedimenti, ha previsto l’aliquota piatta al 20% per gli autonomi con un fatturato inferiore ai 30.000 euro. Lo scopo della riforma non era la riduzione delle tasse, quanto piuttosto quello di ridurre gli adempimenti amministrativi e contabili per questi micro imprenditori.
La tassa piatta era un risultato secondario di un progetto più generale e in effetti non ci fu nessun calo delle entrate statali. Sulla strada della flat tax troviamo ancor la sinistra con una riforma ancor più incisiva nel 2015, riforma che ha ulteriormente semplificato le procedure contabili e di determinazione del reddito.
La flat tax della sinistra ha fatto il suo lavoro, semplificando la vita ad un milione di operatori economici senza creare paradisi fiscali e buchi da colmare nelle casse dello Stato. La storia recente è diversa. La Lega di Matteo Salvini è intervenuta a gamba tesa sul fisco imponendo una nuova versione della flat tax. Via i paletti limitativi e innalzamento del tetto di fatturato. Risultato: una ulteriore ferita al sistema fiscale, reso più iniquo e complicato.
C’è modo di uscire da questo percorso irrazionale, prima che irresponsabile? La via di uscita potrebbe essere quella di ritornare alla vocazione originaria della tassa piatta per gli autonomi, cioè quella di aiutarli a semplificare la loro vita amministrativa. Per far questo si potrebbe pensare ad una tassa piatta differenziata per soglie di fatturato.
Un primo livello potrebbe essere quello della flat tax originaria di Vincenzo Visco, con una soglia di 30.000 euro e una aliquota ridotta al 10%. Un secondo livello potrebbe essere quello della flat tax di Giuseppe Conte, con una aliquota al 20% e una soglia di fatturato di 65.000 euro. Poi ci potrebbe essere un terzo livello, una ipotetica flat tax di Giorgia Meloni, fino ad un fatturato di 100.000 euro e con una aliquota portata al 30%.
Con questa tripartizione sarebbe salvaguardato lo spirito originario di questa strana imposta, e non si creerebbero ingiusti privilegi fiscali. Una flat tax a scalini sarebbe un ragionevole compromesso. Non ci sarebbe il vantaggio fiscale di adesso, ma una sicura e notevole convenienza economica per la riduzione dei costi contabili e gestionali.
E veniamo al momento politico. Seguendo questa strada di responsabilità fiscale, oltre che di rispetto dei principi Costituzionali, la premier Meloni potrebbe ottenere molti risultati. Il primo è quello di portare a compimento il processo lungo e tormentato della tassazione degli autonomi, al di là di ogni delega fiscale. Il secondo è anche più importante. In questo modo potrebbe scavalcare politicamente Salvini, già umiliato nelle urne, sul suo campo preferito mostrandosi come un leader fiscalmente affidabile e capace. Da ultimo, mostrerebbe anche il volto di una destra di governo, diverso da quello che diceva no a tutto e sì a tutti dai banchi dell’opposizione.
In altre parole, la flat tax degli autonomi è un terreno paludoso e pieno di insidie che però si può bonificare in maniera semplice e soddisfacente per tutti, anche per la maggioranza al governo. A patto naturalmente che una leadership autorevole lo voglia fare.