Assolto dall’accusa di molestie sessuali, ma con una carriera rovinata. Kevin Spacey è forse la vittima più illustre, a livello professionale, del fumus persecutionis da #MeToo un tanto al chilo sviluppatosi a seguito del caso Weinstein. Proprio cinque anni fa – ottobre 2017 – le accuse pubbliche dell’attore Anthony Rapp diedero il via ad una catena di ulteriori accuse contro l’interprete di American Beauty: molestie, violenze, atti sempre più inqualificabili e (paradossalmente) impossibili da frenare in ogni angolo del pianeta. Uno, dieci, centomila molestati da Spacey sono sbucati come funghi un attimo dopo il ricordo fulmineo di Rapp risalente a trentuno anni prima. Un elenco di dichiarazioni e denunce (molte di queste ritirate, altre finite in nulla, altre ancora in essere per chissà quanto) che, se solo ci fossimo fermati un attimo a fare un calcolo oggettivo, avrebbero voluto dire una specie di molestia ogni 12 ore.
Addirittura per come è stato dipinta la condotta recente di Spacey, il set di House of Cards sarebbe stato un bordello a cielo aperto. Ma nell’America democraticissima e puritana che si batte per i diritti civili delle minoranze meglio non esibire le tracce di un possibile reo in famiglia che garantirgli una onesta difesa fino a prova contraria. Spacey è stato cacciato da ogni produzione cinetelevisiva hollywoodiana, spostato oltre il margine del ricordo, addirittura cancellato da un (brutto) film (Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott) e sostituito con il film già al montaggio con il povero Cristopher Plummer a recitare per intero la sua parte con punte in CGI spintissima. Passati cinque anni è stata fatta tutta questa cagnara per cosa? Per nulla. Spacey è innocente. E lo è prima di tutto di fronte ad un’accusa quantomeno bislacca di un ragazzino che a 14 anni finisce di sua sponte nella camera da letto di un 26enne a guardare la tv. Dopo ore e ore di zapping inesausto alle 3 di notte il piccolo Rapp vede sbucare Spacey (sarebbe anche la sua camera da letto, ma vabbè) considerato alticcio che lo solleva per i fianchi e gli appoggia l’inguine sul suo.
L’accusa era questa, ricordiamocelo. Non uno stupro su un minorenne e nemmeno una viscida palpata su una persona non consenziente. Del resto lo stesso Rapp aveva spiegato di essersi divincolato senza problemi dalla “morsa”. Insomma, già nell’accusa non c’era alcunché di perseguibile. Eppure si è andati a processo. Eppure Hollywood ha detto addio, senza pensarci un secondo, ad uno dei suoi più grandi talenti. Poi certo, poteva essere pure un capomastro ad incrociare gli inguini con un muratore in un appartamento di Manhattan nel 1986 e avremmo scritto le stesse cose. Soprattutto se quel capomastro fosse stato bandito per il resto della vita da tutti i cantieri del globo. Così da quando i giurati newyorchesi hanno sentenziato che Spacey non ha sfiorato alcuna parte del corpo di Rapp, che il giudice Kaplan ha formalmente respinto ogni accusa del querelante, sarebbe giunto il momento che attendevamo da un po’: che il sistema produttivo e culturale di anime candide che impera ad Hollywood chieda scusa. Con una postilla: invitare Ridley Scott a tirare fuori qualche sterlina per aggiungere di nuovo Spacey in CGI in quel (brutto) film che è stato Tutti i soldi del mondo.