La mostra “Sciascia e Pasolini tra i documenti in archivio”, a cura di Edith Cutaia e Vito Catalano, espone gli articoli di Sciascia su Pasolini e viceversa. "Mio padre e Pier Paolo erano molto vicini. Nonostante negli ultimi anni si scrivessero soltanto senza incontrarsi, erano uniti da affinità. Si ritenevano entrambi liberi, non disposti a seguire i dettami del partito comunista di allora", ha detto la figlia del grande scrittore a FQMagazine
“Quando seppe della morte di Pasolini mio padre scoppiò in un pianto a dirotto, inconsolabile. Era disperato. Non lo avevo mai visto piangere così”. A raccontare del dolore di Leonardo Sciascia per la morte dell’amico Pier Paolo Pasolini, con emozione ancora viva e lacerante, è Anna Maria Sciascia. Lei, la figlia minore del grande scrittore siciliano, sapeva di quell’amicizia speciale che li univa. “Erano entrambi liberi, avevano una visione del mondo e della politica affini. Le divergenze fra loro diventavano materia di confronto accorato”, rivela.
Alla Fondazione Leonardo Sciascia di Racalmuto (il paese d’origine di Sciascia) il 22 e 23 ottobre si parlerà della loro eredità culturale. “Cent’anni di solitudine: la generazione (1921-’25) di Sciascia e Pasolini”, curato da Antonio Di Grado, è il titolo dell’evento che celebra il sodalizio fra i due scrittori. Allargato anche ad altre personalità che, nate nei primi anni Venti, hanno segnato la storia della letteratura e del dibattito intellettuale e civile: Italo Calvino, Emanuele Macaluso, Enrico Berlinguer, Franco Basaglia.
La mostra “Sciascia e Pasolini tra i documenti in archivio”, a cura di Edith Cutaia e Vito Catalano, espone gli articoli di Sciascia su Pasolini e viceversa. Ma anche il loro carteggio. Non solo: i primi fogli del dattiloscritto “L’affaire Moro”, il libro “Il fiore della poesia romanesca” del 1952, curato da Sciascia con premessa di Pasolini, e il libro “Dal Diario” di Pasolini con introduzione di Sciascia. Emerge il rapporto intenso fra due grandi scrittori italiani del Novecento. Che “avevano pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose”, come scrive lo stesso Sciascia all’indomani della morte di Pasolini.
Cosa ricorda del momento in cui suo padre seppe della morte di Pasolini?
Mio padre e Pier Paolo erano molto vicini. Nonostante negli ultimi anni si scrivessero soltanto senza incontrarsi, erano uniti da affinità. Si ritenevano entrambi liberi, non disposti a seguire i dettami del partito comunista di allora. C’era in loro una forma di cristianesimo, così lo definirei oggi, nella visione dell’umanità.
Lei afferma che suo padre non piangeva mai. Ma quella fu una delle rarissime occasione in cui lo vide singhiozzare…
Guardando l’ultimo film di Pasolini ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’, girato nell’anno della sua morte e uscito postumo nel 1976, mio padre non riusciva a reggere lo schermo. Era troppo turbato. Quando Pasolini è mancato, nel 1975, stava leggendo proprio il suo saggio “La scomparsa di Majorana”. Il suo pianto inconsolabile mi stupì. Non era un uomo che mostrava i suoi sentimenti. Credo che a unirli fosse anche un aspetto emotivo. Entrambi avevano sofferto la perdita prematura di un fratello.
Quali aggettivi userebbe per definire Leonardo Sciascia come uomo e come padre?
Riservato e taciturno. Ma gli aggettivi che lo rappresentano meglio per me sono ‘affascinante e adorabile’. Fin da piccola ho pensato che avesse un modo speciale di rapportarsi agli altri. In Sicilia era lui a tenere uniti tutti nel mondo culturale e artistico. In un’atmosfera di complicità e aiuto reciproco che oggi non vedo più.
La sua infanzia e adolescenza con Leonardo e Maria sono state felici?
Straordinarie. Alla sera mio padre leggeva poesie. Gli piacevano Trilussa, i poeti siciliani e i racconti di Calvino, che incontrava quando si recava al Nord. Questa era la nostra quotidianità. Spesso a casa arrivavano artisti e scrittori. C’erano Gesualdo Bufalino, il fotografo Ferdinando Scianna e tanti altri. Una volta è arrivata anche Camilla Cederna. Parlavano e disquisivano di cultura e società civile. Mia sorella Laura partecipava. Io ascoltavo e basta.
Perché lei non partecipava a quelle riunioni di intellettuali a casa sua?
Non mi sentivo all’altezza. Mia sorella, che poi ha fatto la docente universitaria, era la naturale destinataria di quel mondo intellettuale. Io invece, scarsa a scuola tanto che la professoressa di italiano ironicamente mi definiva ‘indegna del nome che portavo’, preferivo rimanere nell’ombra. Mi sono nutrita di quel mondo che è stato un rifugio, la fortuna della mia vita. Ma questa contraddizione fra essere la figlia di un grande scrittore e non avere ambizioni nel diventare qualcuno mi ha sempre fatto sentire disadattata.
Perché disadattata?
Sentivo la responsabilità di un nome troppo importante, non avevo ambizioni intellettuali. Lavoravo all’università come impiegata, personale non docente, ma per tutti ero la figlia di Sciascia. Mi sono laureata in lettere non per scrivere libri o insegnare ma per mia passione personale. Ho scritto un unico libro: ‘Il gioco dei padri. Pirandello e Sciascia’, dove entrambi sono visti attraverso lo sguardo di figlia.
Come giudicava questa scelta suo padre?
E’ sempre stato protettivo nei miei confronti. Mi amava per come sono. E ha dato tantissimo anche ai miei figli da nonno. Quando mio marito lavorava a Catania mi trasferivo nella casa palermitana dei miei genitori con i bambini. Fabrizio, il primo, diceva infatti di avere due case, quella grande e quella piccola. Mio padre aveva sempre un consiglio per loro: andava a prenderli a scuola e cucinava piatti prelibati. Diceva di voler vivere come un impiegato del catasto.
Cosa hanno ereditato i nipoti dal nonno?
Il grande fa il regista, il piccolo lo scrittore. Delle due mie nipotine la più grande frequenta l’accademia di Salvatore Accardo e il conservatorio di Cremona. Io invece non mi sono mai sentita una donna per l’arte e la letteratura. E mio padre mi ha compreso lasciandomi libera di essere me stessa.
Cosa ha capito dopo la morte di suo padre nel 1989?
Che il confronto fra intellettuali e politici ora non esiste più. Siamo tutti allineati, quest’epoca è impressionante.
Qual è il film che rappresenta di più il mondo di Leonardo Sciascia?
‘Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato’. E’ un film del 1971 diretto da Florestano Vancini. ispirato a una novella di Verga a cui mio padre ha collaborato per la sceneggiatura.
Il libro da rileggere oggi?
Il romanzo ‘Porte aperte’. Ripercorre una storia giudiziaria: un giudice durante il fascismo si rifiuta di applicare la pena di morte. Vede, il lavoro di mio padre è ancora attuale, per la sua lungimiranza e per il suo valore umano. In questo caso il colpevole è visto come una persona.
Suo padre disse in un’intervista alla tv Svizzera italiana, nel 1989, ripresa dalla rivista Todomodo, di essere stato il primo a parlare di mafia con il suo nome…
Quando è uscito ‘Il giorno della civetta’ avevo 14 anni. Fu un avvenimento che cambiò la nostra vita. Ci fu in seguito anche la rappresentazione al teatro Stabile di Catania. Dei due piani, quello politico e quello mafioso, fino a quel momento se ne era parlato solo sottovoce. Ma nel suo libro mio padre diede un nome a quell’aspetto della società. E a tanti non piacque.
Il forte impegno civile, l’adesione iniziale al partito comunista e poi al partito radicale. Cosa ricorda di quelle esperienze?
Mio padre è stato candidato, da indipendente nel partito comunista, a consigliere comunale a Palermo. I suoi amici del partito erano in gran parte ex partigiani: Luigi Cortese, Pompeo Colaianni, Emanuele Macaluso. Aprì la campagna elettorale al teatro Politeama di Palermo: io volevo andare con lui ma non mi volle perché aspettavo il primo figlio. Andai ugualmente con mio marito e potei soltanto ascoltarlo perché il teatro era così pieno di gente in piedi da non consentire quasi di entrare. Quando parlava lui la sala era sempre affollata. Ma poi si è dimesso dal partito comunista. Nel 1979 è stato candidato, sempre da indipendente, dal partico radicale. Sa cosa diceva di Marco Pannella? Che era un santo laico. Con i radicali ha portato avanti molte battaglie per i diritti civili.
Il rapporto di suo padre con la religione?
L’ho sempre giudicato come un uomo con un forte senso religioso della vita. Più si avvicinava alla fine più aveva curiosità di sapere. Mia madre, Maria, era molto credente: il primo regalo di Leonardo a lei fu un vangelo. Sulla tomba volle questa incisione: ‘Ce ne ricorderemo di questo pianeta’.
Il libro di Sciascia che consiglia a tutti di leggere?
‘Il cavaliere e la morte’, il suo penultimo lavoro. C’è tutta la poesia dell’esistenza in quel libro. E’ il crepuscolo della sua vita e al tempo stesso un modo di vederla. Come si può vivere senza avere un pensiero sul significato della propria esistenza?
Come reagirebbe oggi Sciascia, secondo lei, alla situazione di guerra che si sta abbattendo sul mondo occidentale?
Sarebbe sgomento.