Il 15 luglio 2020 a San Vicente del Caguán, in Colombia, viene ritrovato il corpo di un ragazzo di 33 anni, impiccato con delle lenzuola nella sua stessa abitazione. Senza aspettare nemmeno un minuto le autorità di Bogotà parlano di “suicidio”. Una tesi che, però, fin dall’inizio pare fare acqua da tutte le parti.
Quel ragazzo era Mario Paciolla, 33 anni, napoletano. In Colombia lavorava con l’ONU.
Dal giorno della sua morte amici e familiari si battono per ottenere verità e giustizia. Perché loro alla tesi del suicidio proprio non credono. E sono invece convinti che si sia trattato di un omicidio.
Due anni dopo, il 19 ottobre 2022, arriva una terribile “doccia gelata”, secondo le parole di Anna e Pino, i genitori di Mario: la Procura di Roma dà per buona la ricostruzione delle autorità colombiane e chiede l’archiviazione: “è un caso da archiviare, non esiste nessun elemento concreto sull’omicidio”. Una decisione “sconcertante”.
Perché se è forse vero che non esistono “prove” dell’omicidio, lo è altrettanto che la tesi del suicidio non convince proprio per nulla.
1. Pochi giorni prima di quel maledetto 15 luglio Mario, in una telefonata ai genitori, si era mostrato preoccupato per qualcosa che aveva visto e forse non doveva vedere: “Ha avuto giorni di grande preoccupazione per il suo lavoro. Era in apprensione per alcuni report e in quei giorni sicuramente è accaduto qualcosa che poi ha determinato la tragedia. Lì bisogna fare chiarezza e cercare la verità” – ha dichiarato sempre la madre. Cosa aveva visto o saputo Mario e che lo aveva spaventato così tanto? Perché nessuna autorità pare interessata a capirlo per davvero?
2. Mario aveva già in tasca un biglietto aereo per tornare a Napoli, lasciando in maniera definitiva la Colombia. Anzi, aveva addirittura già iniziato a spedire le valigie: “Mario aveva organizzato il suo ritorno. Era ormai imminente. Eravamo in pieno periodo Covid e tornare dalla Colombia non era facile. Ma lui aveva già spedito le sue valigie, che io ho aperto e trovato nell’ordine che lui seguiva in questi casi”. E allora perché una persona che di lì a pochi giorni deve fare rientro a Napoli decide di ammazzarsi?
3. A poche ore dalla morte, si precipitano alla casa due funzionari colombiani dell’Onu, il datore di lavoro di Mario. Sono Christian Thompson e Juan Vàsquez. Prelevano oggetti appartenuti a Mario. Ripuliscono la stanza. Addirittura il pavimento fu lavato a colpi di candeggina. Come se qualcuno avesse voluto cancellare ogni traccia. Traccia di cosa. E ancora: perché i quattro agenti di polizia presenti non hanno mosso un dito e perché Thompson e Vàsquez hanno pensato bene di prelevare un materasso e alcuni utensili macchiati di sangue per poi gettarli in una discarica? Alle autorità sembra un comportamento lineare? Perché voler sbattere la porta e rinunciare a perseguire la strada che potrebbe condurre alla verità?
4. Sul corpo di Mario sono stati trovati tagli e segni compatibili con quelli che deriverebbero da un’aggressione violenta. C’è chi si è spinto a parlare di segni di tortura. In seguito alla seconda autopsia sul corpo di Paciolla, quella effettuata in Italia, così scrive Claudia Julieta Duque, giornalista colombiana amica di Mario: “Sebbene le coltellate sul cadavere potessero a prima vista essere classificate come autoinflitte, uno studio più dettagliato delle lesioni ha permesso ai medici legali di determinare che mentre le ferite del polso destro presentavano ‘chiari segni di reazione vitale’, nella mano sinistra mostravano ‘caratteristiche sfumate di vitalità”, o ‘vitalità diffusa’ ,a suggerire che alcune delle ferite potessero essere inflitte ‘in limine vitae o anche post-mortem’, cioè quando Paciolla era in uno stato agonizzante o era già morto”. Diventa, perciò del tutto legittimo supporre che il cooperante sia stato non solo ucciso, ma anche torturato.”
Com’è possibile che questi risultati autoptici non lascino quanto meno aperta la porta del dubbio? Com’è possibile in presenza di tali elementi esser certi si sia trattato di suicidio?
5. Infine: perché l’Onu ha offerto così scarsa collaborazione? In fondo Mario era un loro dipendente: “Mi riferisco anche all’Onu. Mio figlio è un morto sul lavoro. Se un muratore muore su un cantiere si deve chiedere contro all’impresa dove lavorava. Che cosa ha fatto l’Onu per tutelare mio figlio? Come lo ha protetto?”.
Viene il dubbio che anche le Nazioni Unite non abbiano interesse a che si arrivi a una piena verità. Verità che è la precondizione per poter ottenere giustizia. Quella per cui continuano a battersi familiari e amici di Mario. E a cui le nostre stesse istituzioni sembrano aver abdicato.