Lo scorso 2 ottobre i cittadini della Bosnia Erzegovina si sono svegliati sapendo che quel giorno avrebbero votato per le elezioni generali del Paese secondo una precisa legge elettorale. Poche ore dopo, però, quella stessa legge è stata cambiata dall’Alto Rappresentante Christian Schmidt. L’urgenza di modifiche era da mesi al centro del dibattito politico. Ma, dopo i falliti tentativi di accordo tra i leader dei tre “popoli costituenti” – bosgnacchi (bosniaci musulmani), croati e serbi-, Schmidt ha preferito fare da solo, scombussolando il meccanismo elettorale nella Federazione di Bosnia-Erzegovina (una delle due entità che compone il Paese insieme alla Republika Srpska).
La nuova legge elettorale riguarda l’elezione dei rappresentanti della Camera dei Popoli, l’organo che all’interno del Parlamento dell’entità della Federazione di Bosnia Erzegovina rappresenta i diversi gruppi nazionali. Con le nuove regole, è aumentato sia il numero di delegati per ciascuna delle tre etnie principali (passati da 17 a 23), sia quello dei delegati della categoria “altri”, con cui si fa riferimento alle minoranze del Paese (passati da 7 a 11). Il cambiamento che fa più discutere, però, riguarda la modalità con cui questi delegati saranno eletti dai dieci cantoni che compongono la Federazione. “Prima del 2 ottobre le assemblee sceglievano insieme coloro che avrebbero rappresentato i bosgnacchi, i croati e i serbi. Ma con le novità introdotte, spetta ora a ogni caucus etnico scegliere i propri delegati – spiega il giornalista italo-bosniaco Alex Čizmić – Si tratta di una modifica che consolida la divisione etnica, per questo è stata fortemente voluta da Dragan Čović, leader del partito nazionalista croato Hdz BiH”. La legge elettorale precedente permetteva infatti che tutti avessero voce in capitolo nell’elezione dei delegati delle altre etnie, e questo meccanismo faceva sì che, nei cantoni dove la percentuale dei bosgnacchi fosse superiore a quella dei croati, a prevalere fossero delegati croati appartenenti a liste civiche piuttosto che quelli nazionalisti.
Questo spiega perché il membro croato che è appena stato eletto per il secondo mandato alla presidenza tripartita è Željko Komšić, leader del Fronte democratico, partito contrario alle divisioni etniche. “Le modifiche sono state giustificate con la necessità di maggior rappresentatività. Ma, nel concreto, favoriscono il nazionalismo croato. E prova ne è il fatto che si basano sulla cosiddetta sentenza Ljubić, dal nome di uno dei fondatori dell’Hdz, emessa dalla Corte Costituzionale bosniaca, mentre sono state ignorate tutte le altre sentenze, tra cui le 5 pronunciate della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che avrebbero la precedenza su qualsiasi legge nazionale – sottolinea Čizmić – Le stesse modifiche inoltre non sono state adottate in Republika Srpska, dove avvengono discriminazioni molto simili verso chiunque non sia serbo, al punto che per partecipare con più peso nella vita politica alcuni bosgnacchi si dichiarano serbi”.
Nell’entità serba le cose non vanno meglio. Il risultato delle votazioni è in stallo dopo che l’opposizione, sostenuta da centinaia di manifestanti, ha chiesto il riconteggio delle schede. Al momento, il leader del Snsd Milorad Dodik, il politico che meglio ha sposato la causa secessionista degli ultranazionalisti serbi, sarebbe in vantaggio di 30mila voti sulla rivale Jelena Trivić. Ma il risultato potrebbe cambiare dopo il riconteggio autorizzato dalla commissione elettorale centrale, che ha denunciato l’esistenza di prove che dimostrano irregolarità nelle votazioni.
Al di là dei casi specifici, è chiaro che il Paese soffre di un sistema politico fortemente nazionalista, a sua volta ereditato dai trattati di pace di Dayton che, nell’urgenza di mettere fine alla guerra tra serbi, croati e musulmani, garantirono a ognuno dei “tre popoli costituenti” autonomie e poteri abbastanza ampi da convincerli che avrebbero potuto convivere nello stesso Paese e, al contempo, proteggere gli interessi del proprio gruppo etnico. Doveva essere un impianto di passaggio, funzionale alla futura costruzione di un Paese democratico. Invece quel sistema eccezionalmente nazionalista è divenuto la regola. “Anche durante il socialismo c’era l’idea che in Bosnia-Erzegovina fosse necessario garantire la rappresentazione dei gruppi nazionali. All’epoca i presidenti erano addirittura nove. Ma, al contempo, è vero che il sistema di Dayton ha creato un sistema di gerrymandering – sistema distorto per ridisegnare i confini dei collegi – che ostacola una competizione democratica”, spiega Rodolfo Toè, analista politico. “Impedisce ogni cambiamento, dà poteri di veto troppo ampi che portano a paralisi permanenti. Ogni gruppo può bloccare qualsiasi proposta di legge ricorrendo alla clausola della cosiddetta ‘protezione dell’interesse vitale nazionale’ ”.
I risultati della presidenza tripartita hanno fatto emergere leader centristi e di sinistra ma, anche in questo caso, le speranze per un vero cambiamento restano basse. “La presidenza in Bosnia vale quello che vale. Il sistema è parlamentare e i risultati all’interno dei vari parlamenti dimostrano che non è cambiato molto – conclude Toè – Anzi, la storia ha dimostrato che quando le forze progressiste riescono a imporre dei candidati per i livelli superiori di governo, la situazione paradossalmente peggiora perché i partiti nazionalisti sviluppano delle dinamiche di scontro permanente”.