La morte di Francesco Valdiserri, figlio di due giornalisti del Corriere della sera, avvenuta l’altro ieri notte a Roma è un evento terrificante e angoscioso. Purtroppo non si tratta di una vittima isolata, anche se il suo caso è particolarmente straziante perché il ragazzo stava sul marciapiede.

Leggo tutti i giorni la cronaca locale di più giornali, facendo attenzione anche ai piccoli trafiletti. La realtà che ne emerge è devastante: a Roma muore una persona ogni due giorni e in queste ultime settimane ci sono stati anche episodi di due ragazze straniere morte insieme, falcidiate mentre prestavano aiuto, nonché una serie che sembra non fermarsi di persone uccise su moto e scooter, pedoni, ciclisti, gente in monopattino, talvolta anche automobilisti, molti giovanissimi.

Le strade sono spesso quelle a scorrimento più veloce, ma non solo. Si muore in centro, come in periferia, come sul Raccordo Anulare. Le istituzioni, a parte comunicati di cordoglio che peraltro non avvengono neanche per tutte le vittime, sembrano inerti. Disinteressate o impotenti, comunque non pervenute.

Sanzioni molto più severe. Ma non bastano

La cause degli incidenti sono molteplici. Parlo per Roma, ma vale per tutta Italia. Le strade dissestate, la scarsa illuminazione oppure l’illuminazione sbagliata, la segnaletica contraddittoria. Non mi riferisco solo alle grandi buche – vivendo su un motorino so che anche una crepa leggera dell’asfalto può essere letale, perché se ci finisci con la ruota il motorino sbanda. Così come non parlo di chissà quale illuminazione – anche un cordolo senza catarifrangenti di sera può provocare un incidente mortale. E poi l’assenza di controlli, di pattuglie sulle strade, perché in questa città di oltre tre milioni di abitanti abbiamo polizia che non basterebbe per un quartiere.

Poi ci sono le colpe individuali che però, come sempre, sono anche frutto di leggi poco severe e di un sistema che non funziona. L’uso di droga e alcol prima di mettersi in macchina dovrebbe comportare ad esempio, se accertato, sanzioni ben più gravi di quelle attuali e magari si potrebbe ipotizzare un ritiro della patente a vita, e non per brevi periodi che consentono poi di riavere il documento subito, come accaduto alla persona che ha ucciso Francesco.

Un’altra, gravissima causa di morte è l’uso del telefono mentre si guida, un problema che riguarda tutti – alzi la mano chi non ha mai mandato un messaggio magari fermo a un semaforo. Qui pure le sanzioni potrebbero essere davvero molto più dure. Infine l’alta velocità: ridurre la velocità nei centri urbani serve, a mio avviso 30km/h dovrebbe essere davvero il massimo, altro che 50, se una macchina arriva a 50km/h su una persona non c’è scampo. Purtroppo, però, se nessuno fa rispettare i limiti, i limiti non sono rispettati. Le gente corre davvero senza ritegno, e va ancora peggio in caso di fretta, stress, inconsapevolezza che è anche incoscienza.

Le colpe dei costruttori. E quelle leggi che mancano

Ma qui subentrano le colpe dei costruttori, a cui vengono in aiuto normative scarsamente severe e fintamente liberatarie. Perché sappiamo bene che si possono costruire macchine con limitatori di velocità che nessuno vuole installare. E che si potrebbero imporre per legge. Sappiamo anche che potrebbe schermare il telefono all’interno del veicolo, creando appunto una sorta di “gabbia” che impedisce di ricevere telefonate e messaggi. Anche questo potrebbe essere reso obbligatorio, almeno in città, visto che purtroppo ormai la stragrande maggioranza degli incidenti è dovuta al semplice fatto di distogliere anche solo per un paio di secondi lo sguardo dalla strada al telefono. Vite stroncate per un Whatsapp, questo accade.

Solo fermando in anticipo i possibili errori degli automobilisti si possono evitare stragi continue, anche perché si è visto che la minaccia di sanzioni più gravi, comunque necessaria come nel caso della legge sull’omicidio stradale, non ha fatto diminuire gli incidenti. Perché, ripeto, non impedisce “a monte” ma agisce sempre a valle. Ma a valle ci sono già morti, feriti e famiglie distrutte.

Eliminare le macchine, tranne le condivise

E allora cosa si dovrebbe fare? A mio avviso il problema sta ancora altrove e qui mi riallaccio ai temi del mio blog. La macchina, come veicolo che sfreccia potente, come mezzo per fare ciò che ci pare, come veicolo ludico, per uscire, andare a feste, non è mai uscita dal nostro immaginario. Possiamo avere leggi più severe, macchine più sicure per chi guida, ma continueremo a morire e ad ammazzare se la macchina resta il simbolo della libertà assoluta.

Se davvero si volesse fermare questa scia di lutti c’è solo una strada e no, non si tratta solo di aggiustare le buche, migliorare l’illuminazione o mettere una pattuglia in più: le macchine andrebbero soprattutto eliminate. Eliminate, specie come auto singole, almeno dalle città, ammassi di lamiere che invadono tutto rendendo pericoloso persino uscire ed entrare dall’auto o accompagnare un bambino a scuola.

L’assurdità sta anche nel fatto che si usano auto in spazi ristretti che potrebbero essere percorsi a piedi oppure con i mezzi. Le macchine andrebbero tolte anche in buona parte dalle autostrade, sviluppando sistemi di car pooling e di car sharing per le brevi e anche le lunghe distanze e sviluppando la cultura del treno e dei mezzi pubblici, magari resi gratuiti o quasi completamente. L’auto potrebbe restare a patto che sia condivisa, mentre oggi vediamo assurdamente veicoli quasi esclusivamente guidati da singoli. Oltre a diminuire gli incidenti, tutto ciò migliorerebbe drasticamente la qualità dell’aria.

Auto, aboliamo le pubblicità

Ma a questo passaggio epocale – via le macchine dalle città, solo car sharing e mezzi pubblici, via buona parte delle macchine dalle autostrade, sì ad autobus e treni – si oppongono sempre loro: i costruttori di auto, spaventati già solo dal diffondersi dell’idea dello sharing. Il loro obiettivo, grazie alle numerose sponde che spesso trovano nei governi e ai numerosi bonus, è quello di spingere la gente non, ovviamente, a lasciare l’auto, ma a comprare di nuove. Magari meno inquinanti, magari elettriche. Ma non farne a meno.

Le pubblicità delle auto sono quanto di più negativo esista a mio avviso sulla faccia della terra: vedi sempre un uomo, o una donna, o insieme, sfrecciare liberi in territori meravigliosi e certamente ben lontani dagli ingorghi romani e cittadini. E anche se elettrica, lo spot veicola gli stessi valori: auto uguale libertà, felicità, velocità, faccio ciò che voglio. Quell’anarchia felice che poi, magari con un po’ di droga e alcol, si traduce in corpi dilaniati e genitori uccisi anche loro per sempre.

Ecco perché le macchine elettriche ci salveranno da inquinamento ed emissioni, ma non da altri e comunque importanti problemi. Come quello della sicurezza e della salvaguardia di vite umane.

L’unico aiuto, quello che consentirebbe a noi madri di non vivere con l’ansia perenne di possibili incidenti, sarebbe un drastico cambio di immaginario. Non solo individuale, ma collettivo. In cui chi si sposta per fare tre chilometri usando tonnellate di acciaio venga considerato un folle. In cui non dovrebbe essere concepibile che all’interno di piccole città o centri storici ci fossero auto – ma attenzione, non per destinare strade e parchi in mano a ristoratori e a movida incontrollata; bensì per destinarle ai residenti e ai bambini della città.

No, non è un immaginario bucolico e naif. Si chiama transizione ecologica, unita però anche ad un cambio di valori e di stili di vita (chiamatela decrescita felice o come credete). Qualcosa che eviterebbe migliaia di morti (oltre 3000 sulle strade, numero che non accenna a scendere come invece chiesto dall’Europa) e decine di migliaia di invalidi ogni anno.

Perché non ci si pensi e subito – questa è l’unica domanda sensata.

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