Per capire quanto l’invasione dell’Ucraina abbia reso la situazione in Asia Centrale complicata da gestire per Putin, basta citare un dato. Il video dell’intervento che il presidente del Tagikistan, Emomali Rahmon, ha tenuto alla fine della scorsa settimana ad Astana durante un summit tra le Repubbliche dell’area e la Russia è diventato virale, raggiungendo 9 milioni di visualizzazioni. Un numero a dir poco stratosferico per un filmato del genere. Il motivo di tanta attenzione è presto spiegato: il leader tagico ha parlato in maniera estremamente, e sorprendentemente, diretta chiedendo rispetto all’inquilino del Cremlino e che i Paesi centro asiatici non vengano trattati come se esistesse ancora l’Urss. L’autocrate di Dushanbe, che ha parlato anche della necessità che la Russia investa nelle economie locali, ha poi affermato che l’Unione Sovietica è crollata per l’incapacità del centro amministrativo di prestare attenzione proprio alle esigenze delle più piccole repubbliche dell’Unione stessa. Se gli altri leader regionali seduti attorno al tavolo hanno faticato a nascondere tutto il loro imbarazzo, Putin ha invece reagito all’attacco mostrando impassibilità e difendendo la posizione di Mosca affermando che “durante l’era sovietica i libri erano pubblicati nelle lingue nazionali, venivano aperti teatri e la cultura e l’economia hanno conosciuto fasi di grande sviluppo”.
L’intervento di Rahmon, tenuto in un’area nota un tempo per essere scrutata con grande attenzione dai cosiddetti “sovietologi”, ha ovviamente scatenato le più disparate speculazioni. Alcuni osservatori hanno sostenuto si sia trattato di un attacco diretto al ruolo russo in Asia Centrale mentre altri, in maniera maggiormente condivisibile, che il leader tagico, avendo ben chiaro l’isolamento della Russia, voglia cercare di far pesare il proprio ruolo di alleato di ferro di Mosca per ottenere ulteriori concessioni economiche, militari e politiche. Proprio quest’ultimo è il punto centrale da cui partire per analizzare la situazione. Putin è ormai talmente isolato a livello internazionale che anche il presidente di una delle più piccole – in termini demografici, economici e di peso internazionale – repubbliche post-sovietiche si sente ormai autorizzato a metterlo pubblicamente all’angolo.
Venendo al concreto, e allargando lo sguardo alla dimensione regionale, Rahmon sta palesemente cercando di “monetizzare” la sua vicinanza alla Russia, mantenuta salda anche in un momento così complesso. In primo luogo, il Tagikistan ha bisogno di investimenti per cercare di alleviare la gravissima crisi economica che investe il paese ormai da anni. Non solo: anche se sul territorio tagico è presente la più grande base militare russa all’estero, la repubblica centro asiatica confina con l’Afghanistan e ha fin dalla presa al potere dei Talebani tenuto un atteggiamento estremamente critico nei confronti del movimento estremista. Ecco, quindi, che un ulteriore potenziamento del supporto militare russo farebbe sicuramente comodo al regime di Dushanbe. Quest’ultimo punto è ancor più vero considerando i rapporti estremamente tesi con il Kirghizistan a causa di questioni di confine e idriche. A metà settembre si sono registrati i più pesanti scontri degli ultimi anni, provocati dal Tagikistan, che hanno causato decine di vittime. Al momento vige una fragile tregua, ma la retorica tra i due governi è reciprocamente aggressiva e un nuovo round di combattimenti dietro l’angolo.
L’attacco a favore di telecamere di Rahmon nei confronti di Putin è venuto poi in uno dei momenti più critici dei rapporti tra la Russia e il Kazakistan, gigante economico e geografico centro asiatico. Il presidente kazaco, Tokayev, ha portato il proprio paese ad allontanarsi sempre di più dalle posizioni russe dopo l’invasione dell’Ucraina, per il timore di rimanere a sua volta isolato sul fronte internazionale e di perdere credibilità agli occhi degli investitori. Recentemente si è registrato un pesante scontro con Mosca sulla mancata espulsione, poi avvenuta, dell’ambasciatore ucraino ad Astana, resosi protagonista negli scorsi mesi di dichiarazioni al vetriolo nei confronti del Cremlino. Decine di migliaia di cittadini russi in fuga dall’arruolamento forzato stanno inoltre giungendo in Kazakistan, che con la Russia condivide il secondo confine più lungo a livello globale. Tokayev ha dichiarato che i cittadini della Federazione arrivati – che non necessitano di visto per l’ingresso in Kazakistan e molti dei quali usano il territorio kazaco solo come corridoio di transito – non verranno deportati, a meno che non siano inclusi nella lista dei ricercati a livello internazionale. Un ulteriore colpo nei confronti di Mosca.
L’assertività kazaca non è sfuggita agli attori interessati ad accrescere il proprio ruolo nell’area. La Cina è sempre più vicina al Kazakistan: durante la sua recente visita ufficiale nel Paese, il leader Xi Jinping ha dichiarato la volontà di Pechino di supportare il governo della repubblica centro asiatica nella difesa della sua integrità territoriale. Stesso concetto ribadito pochi giorni dopo da Erdogan. L’integrità territoriale kazaca non è in pericolo, ma se una minaccia in tal senso dovesse emergere, sarebbe senza dubbio da imputare alla Russia. Anche l’Uzbekistan guarda sempre più verso altri orizzonti, stringendo tutti gli accordi possibili per aumentare la connettività infrastrutturale regionale e ponendosi come il fautore di una maggiore integrazione e cooperazione locale, che avvengano al di fuori dell’influenza di attori esterni. Il problema per Putin è che, anche se Mosca mantiene una notevole influenza in Asia Centrale, il gruppo dei suoi alleati di ferro nella regione si sta assottigliando, e quei pochi che rimangono iniziano ad alzare la voce. Non certo uno scenario rassicurante.