L'INTERVISTA - Mario Lancisi, giornalista e scrittore, contro la nuova denominazione del ministero dell'Istruzione. Perché sente riaffiorare anche ferite personali. Ha fatto per trent'anni l'inviato, ha scritto numerosi libri. Ma da ragazzino ha rischiato di mollare la scuola ed è stato salvato solo grazie a "Lettera a una professoressa": "Mi bocciarono e l'insegnante disse a mia madre che non ero portato. A casa avevo due libri e genitori contadini, i miei compagni biblioteche lunghissime in famiglia di avvocati e architetti". Di don Lorenzo, alla fine, è diventato il biografo
“A casa io avevo solo due libri. I miei compagni, figli di avvocati, architetti, dottori, invece lunghissime biblioteche. Avevano genitori colti. E chi li aiutava a fare i compiti. Io nessuno. E’ questo il ‘merito’ che si vuole riproporre? A 55 anni da Lettera a una professoressa si intende riproporre una visione classista della scuola attraverso il cavallo di Troia del merito”. Mario Lancisi, 69 anni, giornalista e scrittore, è
Mario Lancisi, perché tanto scandalo per l’aggiunta della parola merito nella nuova dicitura dell’intestazione del ministero dell’istruzione?
Almeno in me l’aggiunta della dicitura Merito a Istruzione ha suscitato lo scandalo e la sofferenza di essere rituffato in una storia dolorosa. La storia cioè di un ragazzo figlio di una famiglia poverissima di mezzadri, bocciato, respinto in nome del “merito”. “Suo figlio non merita di essere promosso”, disse lapidaria una professoressa a mia madre, contadina, quinta elementare. E la mamma: “Se non ce la fai lascia perdere, vai a lavorare. La professoressa ha detto che non sei portato per gli studi”. Da allora in me “merito” si accompagna a “respinto“.
E mollò la scuola?
No, perché in quell’estate di dolore e dubbi, mi imbattei in Lettera a una professoressa. Lì trovai spiegato che dietro la teoria del merito e del genio si nasconde spesso, troppo spesso, il classismo della scuola e della nostra società. A casa io avevo solo due libri, i miei compagni, figli di avvocati, architetti, dottori, invece lunghissime biblioteche. Avevano genitori colti. E chi li aiutava a fare i compiti. Io nessuno. E’ questo il “merito” che si vuole riproporre? A 55 anni da Lettera a una professoressa si intende riproporre una visione classista della scuola attraverso il cavallo di Troia del merito.
La parola merito è positiva: spesso sentiamo che il problema italiano è la mancanza di meritocrazia. Di cosa ha paura?
Qui c’è un equivoco da chiarire. In Lettera a una professoressa si afferma il valore del non bocciare come istanza educativa egualitaria perché la scuola non può diventare, scrive don Milani e i suoi ragazzi, “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Tutti i ragazzi vanno quindi “curati”. A tutti va data una cultura di base per renderli “cittadini sovrani”. E dopo, quando un giovane intraprende la propria professione, la Lettera invoca severità e rigore: “Si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri. Si vogliono sicuri”. Qui il merito, come studio, applicazione e disciplina, conta, ma in una prospettiva di solidarietà sociale: studiare e specializzarsi per essere utili agli altri.
Proprio sul merito si concentrarono le critiche a Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani. Come andò?
Nella scuola del merito al centro c’è l’idea di premiare i migliori. Il merito è l’ideologia della selezione classista e del solipsismo sociale: “Una sola compagna mi parve un po’ elevata. Studiava per amore allo studio. Leggeva dei bei libri. Si chiudeva in camera a ascoltare Bach. E’ il frutto massimo cui può aspirare una scuola come la vostra. A me invece m’hanno insegnato che questa è la più brutta tentazione. Il sapere serve solo per darlo”. A Barbiana il preferito era l’ultimo: si rovesciava così la piramide del merito e dei meritevoli. Il rovesciamento della piramide è il punto massimo della lotta di classe predicata da don Milani. Mentre infatti la meritocrazia finisce per garantire il potere e le caste, la scuola che punta sugli ultimi, su chi è indietro nel processo di apprendimento avvia una vera istanza democratica di eguaglianza e di profondo rinnovamento e ricambio della società.
Ma allora come si fa a integrare uguaglianza e riconoscimento dei risultati, secondo lei?
La scuola di Barbiana ha ideato un metodo di scrittura, la cosiddetta scrittura collettiva, in cui ogni allievo su un tema esprimeva il suo punto di vista in un foglio. Ogni frase veniva sottoposta a critica e a correzione fino ad arrivare alla sintesi più efficace. Lettera a una professoressa è stata scritta con questo metodo; non come opera geniale di un singolo ma come lavoro collettivo. E’ diventato un capolavoro, ha venduto milioni di copie ma dietro c’è il lavoro non di un genio ma quello artigianale degli studenti della scuola di Barbiana. Uguaglianza e merito si integrano in un processo collettivo in cui ciascun ragazzo si mette al servizio degli altri. Vince il noi, non l’io. Il lavoro di squadra e non l’invenzione del genio. Non il merito ma la solidarietà di gruppo. Io vedo nel ritorno classista al merito la spia culturale di un governo che punta alla società dei più forti e dei più ricchi. Aver voluto aggiungere la dicitura del merito al ministero dell’Istruzione non è quindi un’operazione folkloristica, ma funzionale all’ideologia di destra dei nuovi padroni d’Italia.
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Foto in alto | Immagine del 1959 scattata da Oliviero Toscani per L’Espresso, presente su Wikipedia e libera da copyright