Rimpasto politico, che plasma la leadership degli anni futuri, e la linea enunciata nel rapporto del segretario generale. Sono questi i due principali elementi che hanno connotato il congresso del Partito comunista cinese, che dopo una settimana di lavori ha confermato il terzo mandato di Xi Jinping, sempre più leader supremo.
La nuova leadership – Cominciamo dal primo elemento. La nuova composizione del Comitato Permanente del Politburo, cioè la suprema leadership del Partito comunista cinese, non ha riservato alcuna sorpresa. Attorno a un Xi Jinping sempre più “nucleo”, ci sono sette nomi che circolavano da giorni. Sono tutti uomini, compresi tra i 60 e i 69 anni dello stesso Xi, sono tutti legati a lui da affiliazione politica e anche rapporti personali di lunga data. Due erano già presenti nel precedente Comitato Permanente, sono Zhao Leji (numero 3 della gerarchia) e Wang Huning (4). Il primo, 65 anni, è ufficialmente incaricato della disciplina interna del Partito. Più interessante è il secondo, 67 anni, che passa per essere il teorico dietro le quinte, l’uomo che ispira il “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era”, teoria eponima del leader, già inserita nello statuto del partito. L’ordine gerarchico suggerisce per altro che Xi Jinping resterà al potere non solo per i prossimi cinque anni, bensì per i prossimi dieci. Nel 2032 avrà del resto 79 anni, come Biden oggi, e se può lo statunitense figurati se non può il “leader del popolo”.
Cinque dei sette che sono entrati nella stanza dei bottoni, dovrebbero infatti andare in pensione per sopraggiunti limiti di età (che non riguardano Xi) al prossimo congresso, quello del 2027. È presente solo un rappresentante della sesta generazione, quella che in teoria avrebbe dovuto succedere al leader attuale. Si tratta di Ding Xuexiang (numero 6 della gerarchia) – il primo membro del Comitato nato negli anni Sessanta (1962) – che nel 2019 scrisse un saggio sull’importanza di “rafforzare l’autorità del Comitato Centrale del Partito e la leadership centralizzata e unificata”, cioè, in poche parole, di Xi Jinping. Ding è probabilmente destinato a diventare il numero 2 nel 2027, lasciando quindi a Xi la posizione più elevata. Un’indicazione più precisa arriverà se, al prossimo Lianghui, cioè la doppia sessione dei parlamenti cinesi (generalmente si tiene a marzo), verrà nominato vice-premier.
Da questo congresso emerge come numero 2 Li Qiang, 63 anni, che probabilmente diventerà anche premier della Repubblica Popolare Cinese durante il Lianghui. In questo caso, avverrebbe uno strappo alle regole, perché Li Qiang – che sostituisce il numero 2 uscente, Li Keqiang – non è mai stato vice-premier e ha solo esperienza di governo locale, in quanto segretario del partito a Shanghai. Evidentemente la disastrosa gestione della pandemia – ricordiamo i due mesi di blocco della città – non ha influito sulla sua ascesa, segno che le questioni di merito sono passate in secondo piano. Certo, si dice che Li abbia competenze in ambito tecnologico, ma è soprattutto un fedelissimo di Xi Jinping, come tutti gli altri, del resto. Al numero 5 c’è Cai Qi – segretario del partito a Pechino – e al numero 7 Li Xi, leader del Guangdong, che sarebbe addirittura amico personale di Xi Jinping fin dalla giovinezza.
È senz’altro la leadership più omogenea degli ultimi vent’anni, l’unica affiliazione comune ai suoi membri è quella con Xi Jinping. Il pensionamento dell’ex numero 2, Li Keqiang, e dell’ex numero 4, Wang Yang – che molti indicavano invece come candidato alla seconda posizione gerarchica dietro al leader nel nuovo Comitato Permanente – non lasciano dubbi. Così come non lascia alcun dubbio l’esclusione dal Politburo – l’organismo dei 25 più alti funzionari – di Hu Chunhua, il più accreditato membro della sesta generazione, ritenuto un possibile erede di Xi Jinping: demansionato, fuori dal grande giro.
Questa totale egemonia di Xi Jinping negli equilibri interni ci rimanda anche a ciò di cui tutti hanno parlato, cioè l’incidente Hu Jintao, l’ex leader 79enne che è stato “accompagnato” fuori dalla Grande Sala del Popolo durante l’ultima seduta del Comitato Centrale. Questa vicenda meriterebbe un intero articolo, qui ci basti sottolineare che al momento di scrivere appaiono plausibili entrambe le interpretazioni: che Hu non stesse bene sia fisicamente sia mentalmente e sia stato quindi indotto a lasciare la sala; che l’ex leader fosse rimasto sgradevolmente sorpreso dalla composizione della nuova leadership e fosse intenzionato a inscenare qualche forma di protesta clamorosa che avrebbe rotto il rituale preconfezionato.
I contenuti politici del Congresso – I media cinesi hanno insistito molto sul concetto di modernizzazione, cioè xiandaihua, parola pronunciata da Xi Jinping 171 volte nel suo rapporto di inizio lavori, poi adottato dal partito alla fine. Da qui al 2035, la Cina dovrà quindi realizzare la “piena modernizzazione”, passaggio intermedio ritenuto necessario tra il già conseguito “primo centenario” (2021), quando è diventata “una società moderatamente prospera a tutti gli effetti”, e il “secondo centenario” (2049), quando, almeno nelle intenzioni, diventerà un “paese socialista forte, democratico, civile, armonioso e moderno”, realizzando così il “ringiovanimento della nazione cinese”. Il concetto di modernizzazione non è assolutamente nuovo, possiamo dire che tutto il cammino del Partito comunista cinese fino a oggi sia una tensione verso il futuro. Ma per la prima volta, forse, la modernizzazione è stata sistematizzata con chiarezza.
È innanzitutto una “modernizzazione socialista con caratteristiche cinesi”, quindi diversa da quella capitalista occidentale. Ha al suo centro il Partito comunista, che svolge una funzione esclusiva di guida per tenere insieme un miliardo e 400 milioni di cinesi più o meno protesi verso l’obiettivo finale. Nel rapporto di Xi, la xiandaihua è la “modernizzazione di una grande popolazione”; “della prosperità condivisa per tutti”; “dell’avanzamento materiale ed etico-culturale”; “dell’armonia tra l’umanità e la natura”; “dello sviluppo pacifico”.
In particolare, gongtong fuyu – prosperità condivisa – è stata pronunciata 16 volte da Xi Jinping nel suo rapporto. Niente, in confronto a termini più fagocitanti (sviluppo, 239 occorrenze; socialismo, 232), ma l’insistenza sulla redistribuzione è confermata dalla frequenza di altri termini, come occupazione, uguaglianza, sicurezza sociale, nonché tutti quelli che definiscono il rapporto città-campagna. La prosperità condivisa – contributo teorico di Wang Huning ribadito da Xi nell’ultimo anno e mezzo – sembra così affiancarsi ad altre priorità: lo sviluppo come filo rosso degli ultimi 40 anni cinesi e poi la sicurezza, pronunciata per ben 91 volte, nel cui campo semantico possiamo far rientrare anche stabilità (20) e rischio (16), più tutti i termini che riguardano la Difesa. La sicurezza – politica, militare, energetica, alimentare – è considerata da qualche anno condizione imprescindibile dello sviluppo. C’è poi un altro termine chiave ribadito di continuo cioè qualità (43 volte), a cui sono da affiancare cultura, innovazione, scienza, tecnologia, talento. La conta delle occorrenze – sport praticato da tutti gli osservatori – serve a vedere in che direzione si sposta in prospettiva futura il baricentro del discorso pubblico cinese, degli slogan e quindi anche dell’immaginario collettivo. Probabilmente è più utile del filo logico stesso, che spesso paga un tributo eccessivo alla retorica di partito.
Sviluppo-sicurezza-qualità-ricchezza condivisa: tenere insieme queste priorità creando un circolo virtuoso è il problema dei problemi, acuito dalle tante “turbolenze”, interne ed esterne, dei nostri tempi: l’economia che rallenta, il Covid, la crisi dell’immobiliare, da un lato; il conflitto multidimensionale con gli Usa, la guerra in Ucraina, l’emergenza climatica dall’altro. La prova che questo sia “il” punto, ci è fornita dalle politiche statunitensi nei confronti della Cina, che sembrano prendere sistematicamente di mira le quattro priorità, una a una, per rompere il potenziale circolo virtuoso: tarpare lo sviluppo cinese con provocazioni e pressioni militari (contro la sicurezza), con sanzioni che riguardano soprattutto l’high-tech (la qualità) e con politiche che penalizzando l’economia cinese (lo sviluppo), penalizzano la base materiale del lavoro e della redistribuzione (la ricchezza condivisa). Il tutto condito dalla potenza di fuoco della narrazione univoca ad opera dei media atlantici, che continuano a presentare la Cina come minaccia secondo la contrapposizione “democrazie-autocrazie”.
Su questo sfondo di prospettive eclatanti e preoccupazioni importanti, si colloca anche “lo spirito” del rapporto di Xi Jinping e del congresso in generale. Da un lato, per controbattere alla retorica sul “pericolo giallo”. Un continuo ribadire che la crescita cinese è “pacifica”: anche su Taiwan, la linea ufficiale è che la riunificazione pacifica resta l’opzione privilegiata e che l’uso eventuale della forza sarebbe rivolto solo contro forze esterne e interne che premono sull’acceleratore di un’indipendenza formale, mai contro i “compatrioti” taiwanesi. Dall’altro, Xi Jinping è sembrato rispolverare il vecchio spirito del partito di lotta, con un linguaggio molto battagliero, quasi marziale. Ecco solo alcuni esempi: il Partito “ha alle spalle un secolo di lotta”; “dobbiamo avere il coraggio di combattere e farlo bene”; quella contro l’epidemia è una “guerra di popolo”; e poi naturalmente ci vuole “forte determinazione e grande abilità nell’opporsi al separatismo taiwanese”. Cioè, al di là dei contenuti espressi nell’ora e quaranta del suo discorso, è come se Xi avesse reindossato la zhongshan zhuang – la giacca di Mao e di Sun Yat-sen – per mobilitare e guidare il popolo verso le enormi sfide che attendono la Cina in vista di quel 2049 in cui dovrà essere conseguito “il grande ringiovanimento della nazione cinese”. Ovvero una Cina non solo ricca, ma anche forte e rispettata nel mondo.