“L’han giurato li ho visti in Quirinal / convenuti da Melo e da Lega. / L’han giurato e si strinser la mano / Mattarella e la Giorgia ducessa novella. / Oh spettacol di empio orror”. Parafrasi scema per celia, ma non tanto, di Giovanni Berchet (1783-1851), l’autore ispirato al Giuramento di Pontida (1167) che incita alla resistenza contro gli austriaci di Federico Barbarossa. C’è da rimanere allibiti con quanta disinvoltura “lorsignore e lorsignori” in gramaglie quirinalizie han giurato sulla Costituzione del 1948. Mi viene il dubbio se abbiano capito il senso delle parole della formula: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Tre imperativi: fedeltà, lealtà, interesse comune (Nazione) e tre soggetti di riferimento come pilastri portanti: Repubblica, Costituzione/leggi ed esclusività pubblica delle funzioni.
Questo giuramento, così articolato, impone in primo luogo il dovere di attuare l’art. 3 della Costituzione, in ambedue i commi, che è bene ripassare nell’era meloniana: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Vale per le famiglie, le imprese, la scuola.
Alla luce di questo magistero supremo, aggiungere al nome del ministero dell’Istruzione il lemma “e del merito” va contro l’articolo 3 sopra citato. Il merito, infatti, elimina l’uguaglianza e rafforza la disuguaglianza, dandole dignità etica che è un insulto grave alla Carta su cui han giurato Donna Giorgia e i suoi cari. Secondo papa Francesco, cattolico doc, “la meritocrazia tanto osannata è un disvalore” perché “usa una bella parola, merito, in modo ideologico e la perverte. La meritocrazia è una legittimazione etica della disuguaglianza” (Genova, discorso agli operai dell’Ilva, 27 maggio 2017).
La meritocrazia, secondo la Scuola di Barbiana/don Lorenzo Milani “fa le parti uguali tra diseguali” (Lettera a una professoressa), approfondendo le distanze e la diseguaglianza. La separazione tra giuramento e spergiuro è infima e Donna Giorgia farà bene a riflettere perché il “mattino si vede dal buon giorno” e sono convinto che con questi chiari di luna non durerà più di un anno. Il bambino ricco avrà più opportunità di un bambino povero e avrà meriti maggiori perché dispone di strumenti più adeguati. Il merito che premia il primo condanna il secondo perché non meritevole, cioè colpevole. Tutti i grandi pedagoghi e maestri sani di mente sono contro la meritocrazia, a scuola, nel lavoro, nella società perché mette in moto la competizione e non la collaborazione con l’esito finale che ognuno lotta per sé contro gli altri per avere un bene personale immediato e non per collaborare con tutti per un bene superiore come è il “bene comune”, dentro il quale c’è ampiamente compreso il bene personale (cfr. il noto pedagogista Daniele Novara).
La Repubblica, che è obbligata a rimuovere gli “ostacoli di natura economica”, deve creare sempre luoghi, possibilità, opportunità e occasioni di emulazione, non di competizione, perché lo Stato si costruisce con la disponibilità interiore a collaborare, non col merito che costringe alla lotta intestina e alla disgregazione; in ultima analisi a vedere l’altro (il collega, la collega, la compagna, il compagno) come ostacolo, nemico, avversario da distruggere. Lo Stato, da “luogo” di civiltà che garantisce a ciascuno lo spazio per realizzare i propri talenti acquisiti per natura e appresi per cultura, si trasforma in una banda di ladri, dove ognuno arraffa per sé tutto quello che può, anche ciò che suo non è.
Ciò detto, a scanso di equivoci, questo vezzo di cambiare il nome del ministero senza intaccarne la sostanza a me sembra piuttosto una miserevole foglia di fico a copertura di un empito di nostalgia per sedare appetiti trogloditi di adepti sorpassati dalla storia, ma che, da votanti, attendono segnali di fumo, come simbolo della destra che fu. La ducessa Giorgia dimostra così presunzione e ignoranza, per giunta a spese dell’Istruzione, il fondamento primario, insieme al lavoro, della stabilità della Democrazia. Non potendo modificare nulla in economia e politica estera, non le restava che sfoggiare il nominalismo patetico e inconcludente, come insegna Bernardo di Cluny nel Contemptu mundi, con cui Umberto Eco chiude il Nome della Rosa che qui si parafrasa: “Stat Giorgia pristina nomine, nomina nuda tenemus”: la Giorgia nostalgica esiste solo nel nome, accontentiamoci, quindi, di nomi soltanto.
W la vita complessa e diversa, magica e complicata. Nonostante donna Giorgia e i suoi cari. Arrivederci a presto, entro un anno. Io vi aspetto.