Ha letto e riletto il suo discorso per tutto il tempo, sottolineando, tagliando, prendendo appunti a margine, correggendo. Continuando a muoversi sulla seduta di Palazzo Madama, segno evidente di nervosismo e agitazione. Al suo fianco la fedelissima Licia Ronzulli da una parte e Maurizio Gasparri dall’altra. Poi sono arrivati Gianfranco Micciché e, dietro, Stefania Craxi. L’unico momento in cui Berlusconi si è distratto è stato per ascoltare l’intervento di Matteo Renzi. Poi è toccato a lui. A nove anni della decadenza da senatore, Silvio Berlusconi è tornato a parlare in Senato per la dichiarazione di voto di Forza Italia sul governo di Giorgia Meloni. “Torno a parlare in Senato dopo 9 anni e lo faccio nel giorno in cui è nato il mio 17esimo nipotino…”, ha esordito l’ex premier.

Quando per effetto della condanna definitiva e della legge Severino fu costretto a lasciare era un Berlusconi molto diverso: leader incontrastato di un centrodestra e di un Pdl che alle elezioni dello stesso anno aveva preso il 21,6%, con la Lega al 4,1% e Fdi al 2%. Oggi, invece, a 86 anni si ritrova fanalino di coda di una coalizione dove al comando non c’è più lui. E reduce da un passaggio in cui è uscito sconfitto dalle scelte sui ministeri e sbeffeggiato per le gaffe vere o presunte, sui pizzini e gli audio rubati.

Ma proprio per evitare altri scivoloni, il discorso dell’ex Cavaliere è stato, dal suo punto di vista, perfetto, senza sbavature o virgole fuori posto. Di politica interna c’è solo un richiamo alla riforma del fisco e della giustizia, ma buona parte è stata dedicata all’estero, a rivendicare il suo atlantismo, l’adesione ai principi e valori occidentali, alla Nato, all’Europa e all’America. “Sulla nostra posizione internazionale non si può avere alcun dubbio”, ha detto Berlusconi, sottolineando che “bisogna lavorare per la pace”. Poi ha ricordato il vertice di Pratica di mare rammaricandosi per le scelte odierne di Putin che hanno vanificato quel lavoro per avvicinarlo all’occidente. Medesimo attestato di atlantismo era stato fatto qualche intervento prima da Licia Ronzulli, che è apparsa assai conciliante anche verso Meloni. “Lei ha avuto coraggio, noi saremo con lei. Non la lasceremo sola”, ha detto la capogruppo, parole che, con un po’ di malizia, potrebbero pure suonare come una minaccia. Il voto di fiducia è passato con 115 voti, tutti quelli del centrodestra, dove i 18 senatori azzurri sono più che mai determinanti. Insomma, un pezzo di golden share sull’esecutivo sta nelle sue mani e molti scommettono che la senatrice milanese qualche piccola vendetta per essere stata esclusa dal governo più avanti se la prenderà.

Se proprio nel discorso di Berlusconi si vuole trovare una nota polemica, è nel colmare una dimenticanza della neo premier in tutti i suoi interventi, ovvero la rivendicazione della paternità del centrodestra. “Se oggi lei è su quella sedia lo si deve al fatto che nel 1994 ho fondato una coalizione che è sempre rimasta unita al governo e all’opposizione e ha avuto come unico faro quello della libertà. Con lei saremo leali”, ha detto l’uomo di Arcore evidentemente sminuito dal mancato omaggio di Meloni al suo ruolo di fondatore. Il testo è stato scritto dallo staff con la supervisione e la bollinatura finale di Gianni Letta, ma anche Marina e Piersilvio hanno voluto leggerlo prima che il padre partisse alla volta di Palazzo Madama. Dove Berlusconi è arrivato verso le 17. “La situazione è difficile, ma noi diamo convintamente la nostra fiducia”, ha sussurrato prima di entrare in Aula, intercettato dai cronisti.

Entro lunedì il governo dovrà trovare la quadra sui sottosegretari, come ha chiesto la neo premier. Con l’ex Cavaliere che pretende tra i 10 e i 12 posti per placare gli appetiti interni ma pure dimostrare di potersi imporre sull’ala governista capitanata da Antonio Tajani. Che al momento potrebbero trovare soddisfazione solo con due posti, di cui uno per Paolo Barelli. Berlusconi e Tajani si sono parlati la sera scorsa, col primo a rassicurare il secondo che nessuno pretende di prendere il suo posto da coordinatore, anche se Giorgio Mulè due giorni era stato chiaro: i ronzulliani hanno messo nel mirino i doppi incarichi e vogliono che i due ministri (lui e Bernini) lascino gli incarichi nel partito. E c’è un’altra grana per Berlusconi al sud, con Stefano Caldoro che punta il dito sull’assenza del Mezzogiorno tra i 5 ministri azzurri. “Inaccettabile. Una scelta molto grave”, sostiene il consigliere campano. Aprendo un altro fronte interno. Ma per oggi il ritorno del capo vale una tregua: il discorso del vecchio leader è salutato da una standing ovation, con centrodestra e governo in piedi, compresa Giorgia Meloni.

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