Il protagonista è Gabrielle Macinati, 46 anni, di Civezzano, ma la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio anche per la moglie e tre collaboratori. L'inchiesta ha ricostruito le richieste di test con esiti positivi per poter poi avere il certificato verde: tra chi lo chiedeva per andare in crociera a chi ne aveva bisogno per lavorare. A gennaio i carabinieri avevano sequestrato 120mila euro all’infermiere
Per un vasto giro di falsi green pass rafforzati è stato chiesto il processo per un infermiere trentino al centro della vicenda, ma anche per la moglie, tre collaboratori e 87 clienti. Avrebbero pagato, stando all’accusa, per ricevere il certificato verde e quindi anche per loro la Procura di Trento ha chiesto il rinvio a giudizio (a diverso titolo) per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, falso e accesso abusivo a un sistema informatico. Il protagonista è Gabrielle Macinati, 46 anni, di Civezzano, che avrebbe ricevuto 200-250 euro per ogni attestazione che consentiva di ottenere il green pass.
La Procura ha ricostruite motivazioni molto diverse da parte dei clienti dell’infermiere. Qualcuno aveva bisogno del certificato per partecipare a una gara sportiva, qualcun altro per poter andare in vacanza su una nave da crociera, ma c’erano anche genitori che avevano chiesto il via libera per i figli. Pagando, ecco che si aggiravano gli obblighi imposti dalle misure di prevenzione durante la pandemia, ottenendo “test rapidi mendaci”. L’elenco dei clienti è lungo e comprende impiegati, liberi professionisti, operai e anche qualche esponente delle forze dell’ordine che aveva bisogno del green pass per lavorare.
Il pubblico ministeri Davide Ognibene scrive nella richiesta di rinvio a giudizio che il pagamento serviva ad “inserire nella piattaforma nazionale Dgc i relativi esiti dei tamponi nasali rapidi con risultato positivo, al fine di ricevere la certificazione verde al termine del prescritto periodo di isolamento sanitario”. Per questo, oltre alla corruzione e al falso, ecco anche il reato di accesso abusivo a un sistema informatico.
L’indagine è stata condotta operativamente dai carabinieri della sezione di polizia giudiziaria. Hanno scoperto, tra l’altro, che alcuni clienti abitanti fuori provincia avevano richiesto il certificato inviando semplicemente via WhatsApp la tessera sanitaria e un documento di identità. Al resto ci pensava l’infermiere, che inseriva l’esito dei test (sia negativi, sia positivi a seconda delle necessità) nella piattaforma informatica Smartlab, predisposta dall’azienda sanitaria che faceva poi confluire i dati nella piattaforma del Ministero della Salute.
Secondo gli accertamenti, negli ambulatori privati di Pergine Valsugana e Trento sarebbe stato effettuato un numero spropositato di tamponi al mese. “Le richieste erano tante, ma l’attività era quasi gratuita”, ha spiegato Macinati, assistito dagli avvocati Giuliano Valer e Monica Carlin. L’infermiere ha dato la sua collaborazione all’autorità giudiziaria. Alcuni mesi fa aveva ammesso in una intervista: “Alcuni clienti si presentavano a casa a Civezzano per chiedermi di essere inseriti positivi. Altri invece si presentavano presso l’ambulatorio di Pergine, mi attendevano nel parcheggio esterno prima dell’apertura e mi chiedevano di essere inseriti come positivi. Altri ancora mi chiamavano e, non fidandosi di parlare al telefono, mi chiedevano di vederci di persona sempre per farmi la stessa richiesta”. Ha poi ammesso che un suo conoscente gli aveva inviato più di una ventina di richieste relative a persone non residenti in Trentino. A gennaio i carabinieri avevano sequestrato 120mila euro all’infermiere, ritenendo che siano proventi dell’attività illecita, e in una agenda rossa era stata trovata la contabilità clandestina.