La premier durante il discorso programmatico ha sostenuto che serve una modifica degli attuali parametri. Il presupposto da cui parte è falso, come già chiarito otto anni fa nella risposta a un'interrogazione parlamentare di Enrico Zanetti (che infatti l'ha smentita). La convenzione con il ministero dell'Economia prevede, come stabilito dalla legge, che i parametri di attribuzione dei premi siano legati alle entrate effettive da attività di contrasto all'evasione e promozione della compliance
La prima a smentirla, martedì pomeriggio, è stata la deputata dem Marianna Madia. Mercoledì è arrivata anche la precisazione di Enrico Zanetti, ex deputato di Scelta civica e viceministro dell’Economia del governo Renzi, che l’argomento lo conosce bene perché nel 2014 era caduto anche lui nell’errore e l’Agenzia delle Entrate gli aveva riservato una risposta piccata. Gli addetti ai lavori che gravitano intorno all’amministrazione finanziaria tacciono, ma la frase di Giorgia Meloni sulla necessità di “una modifica dei criteri di valutazione dei risultati dell’Agenzia delle Entrate“ li ha fatti saltare sulla sedia. Perché quello che ha detto la premier durante il discorso programmatico alla Camera, sostenendo che quei criteri vanno “ancorati agli importi effettivamente incassati e non alle semplici contestazioni, come incredibilmente avvenuto finora“, parte da presupposti falsi. Un attacco al fisco senza fondamento, dunque, che strizza l’occhio a chi considera la lotta all’evasione un intralcio all’attività economica. Tutto torna visto che il nuovo governo intende esordire con un condono (in linea con il predecessore), innalzare il tetto all’uso del contante e concentrare le azioni di recupero su “evasori totali, grandi imprese e grandi frodi sull’Iva”, quando in Italia il nero è un fenomeno di massa, pervasivo tra i lavoratori autonomi.
“Il tema non è quello di passare dal considerare gli importi delle semplici contestazioni al considerare gli importi dell’effettivo incassato, perché è così già da 20 anni“, ha scritto mercoledì Zanetti su facebook (per poi contestare la mancanza di “discriminazione qualitativa delle attività di controllo”). Come aveva avuto modo di spiegargli l’Agenzia replicando a una sua interrogazione parlamentare, infatti, già la norma del 1997 che ha introdotto i primi incentivi al personale delle Entrate li legava al recupero del gettito evaso – cioè ai soldi davvero entrati nelle casse pubbliche – e non al mero invio di avvisi di accertamento per somme dovute ma con chance di recupero incerte. Una svolta decisa proprio per (cercare di) superare la tendenza a privilegiare gli accertamenti “virtuali”, ricorda un ex altissimo dirigente.
In seguito la relazione tra ministero dell’Economia e Agenzia e di conseguenza anche i parametri di attribuzione dei premi sono stati via via regolati dalle convenzioni triennali previste dal decreto legislativo del 1999, quello che ha istituito le agenzie fiscali. Ogni convenzione prevede l’erogazione di una quota incentivante all’ente oggi guidato da Ernesto Maria Ruffini al raggiungimento di una serie di obiettivi suddivisi in aree di intervento. La fetta più grossa, in base al decreto del 2015 che ha riformato le norme sull’incentivazione del personale, è correlata al “maggior gettito incassato” grazie a promozione dell’adempimento spontaneo, controlli fiscali e stop a rimborsi e crediti di imposta non dovuti. Maggior gettito reale, dunque.
La convenzione attualmente in vigore, firmata a fine 2021 e valida fino al 2023, cita la famigerata “maggiore imposta accertata” ma solo tra gli “ulteriori elementi informativi” da tenere in considerazione. La tabella con gli indicatori che contano nella valutazione dei risultati dell’Agenzia relativi al contrasto all’evasione non ne fa cenno: a rilevare sono, appunto, solo le “entrate complessive da attività di contrasto” (l’obiettivo 2022 era di 15,87 miliardi), affiancate da percentuali di successo relative ai casi in cui l’atto viene impugnato e si finisce in commissione tributaria (si punta per esempio a un 69% di sentenze definitive totalmente favorevoli all’Agenzia). La parte specificamente dedicata al sistema incentivante del personale contiene 37 indicatori: il peso maggiore (28%) spetta a quelli che misurano gli sforzi per favorire la compliance, vale a dire l’adesione più o meno spontanea in seguito all’invio di lettere bonarie, seguiti (con un peso del 16,7%) da quelli che valutano la qualità dei servizi erogati (rimborsi, tempi di lavorazione delle pratiche), mentre solo un 10% viene attribuito al numero di controlli sostanziali, molto diminuiti negli ultimi anni ma indispensabili se si vuol ottenere un minimo effetto deterrenza.
Ma da dove nascono allora le vecchie polemiche sui presunti “premi per la caccia agli evasori“, rilanciate ora dalla neo premier? Nella risposta a Zanetti, l’allora direttore centrale dell’Agenzia aveva ipotizzato che c’entrassero qualcosa i “notevoli incrementi di recupero di gettito” degli anni precedenti, dai 6,9 miliardi complessivi del 2008 ai 14 del 2014. Dopo un picco raggiunto nel 2016, dovuto però in gran parte a versamenti spontanei o legati alla voluntary disclosure, la pandemia ha fatto segnare una pesante battuta d’arresto, seguita da un recupero nel 2021 quando le attività di contrasto all’evasione hanno portato in cassa 12 miliardi. Come andrà d’ora in poi dipenderà anche dagli indirizzi del nuovo governo. Che non potrà però non tener conto del fatto che il Pnrr impone di ridurre entro il 2024 il cosiddetto tax gap, che misura la “propensione a evadere”, di quasi tre punti rispetto al valore del 2019.