Giustizia & Impunità

Incidente Andria-Corato, chieste condanne fino a 12 anni per i vertici di Ferrotramviaria. I pm: “Revocare la concessione all’azienda”

Il pm Marcello Catalano - che contesta a vario titolo i reati di disastro ferroviario, omicidio colposo plurimo e falso - ha richiesto le pene più alte per Enrico Maria Pasquini, Massimo Nitti e Michele Ronchi. Coinvolti anche dirigenti del ministero delle Infrastrutture. Nello scontro morirono 23 persone

Condanne dai sei ai 12 anni di reclusione, più la revoca di autorizzazioni, licenze e concessioni per un anno a Ferrotramviaria con l’aggiunta di una sanzione amministrativa di 1,1 milioni di euro. Sono queste le richieste formulate dall’accusa per il disastro ferroviario avvenuto lungo la tratta della Bari Nord, tra Andria e Corato, il 12 luglio 2016. Nell’incidente, che vide i due treni scontrarsi frontalmente lungo la linea, morirono 23 persone e altre 50 rimasero ferite.

Il pm Marcello Catalano – che contesta a vario titolo i reati di disastro ferroviario, omicidio colposo plurimo e falso – ha richiesto le pene più alte per le figure apicali di Ferrotramviaria: 12 anni per Enrico Maria Pasquini, all’epoca dei fatti al vertice della concessionaria, per Massimo Nitti, direttore generale dell’azienda, e per Michele Ronchi, direttore di esercizio della società. Nove anni è invece stata la richiesta per Giulio Roselli, dirigente a capo della divisione infrastruttura, 6 anni per il capotreno Nicola Lorizzo.

Stessa richiesta per Francesco Pistolato, dirigente coordinatore centrale, Vito Mastrodonato, dirigente della Divisione passeggeri, macchinisti e capitreno, Francesco Giuseppe Michele Schiraldi, a capo unità organizzativa tecnica, Tommaso Zonno, della divisione passeggeri, Giandonato Cassano, ferroviere e istruttore, Virginio Di Gianbattista, all’epoca dirigente del ministero delle Infrastrutture, Alessandro De Paola, direttore dell’Ustif (Ufficio speciale trasporti a impianti fissi, dipartimento del ministero delle Infrastrutture) e per Pietro Marturano, anch’egli direttore Ustif. Nel gennaio 2020, la dirigente del Mit Elena Molinaro, che scelse il rito abbreviato, venne assolta per non aver commesso il fatto, poiché si era occupata di ferrovie locali in epoca antecedente le normative in vigore il giorno dell’incidente.

Per i due capostazione Vito Piccarreta e Alessio Porcelli, rispettivamente in servizio ad Andria e Corato, sono stati chiesti 7 anni per omicidio colposo e falso in atti pubblici. Il pm ha inoltre sollecitato l’assoluzione di Antonio Galesi per non avere commesso il fatto. La prossima udienza è fissata al 10 novembre per ascoltare le parti civili e le difese. Durissima quindi l’impostazione dell’accusa, che ha riversato le maggiori colpe sull’azienda, richiedendo la revoca di tutte le autorizzazioni, compreso il certificato per la sicurezza, e la confisca di 664mila euro, somma che – secondo il pubblico ministero – la società avrebbe dovuto investire per mettere in sicurezza la tratta con la realizzazione e l’uso del blocco conta assi.

Già nei giorni successivi all’incidente, Ilfattoquotidiano.it spiegò come sarebbero bastate poche centinaia di migliaia di euro per installare quella tipologia di meccanismo di sicurezza e abbassare quasi a zero il rischio di un incidente simile. Invece, in attesa del raddoppio dei binari, Ferrotramviaria aveva continuato a utilizzare la tecnologia più obsoleta, il blocco telefonico che prevede l’invio di una sorta di telegramma per richiedere la possibilità di lasciare partire un treno. Il blocco conta assi, all’epoca utilizzato su alcune tratte della rete Rfi e su più di mille chilometri di ferrovie locali, rileva invece il numero di ruote che occupano la tratta impedendo di far partire un altro convoglio fino a quando quello che si trova sulla linea non è arrivato a destinazione.

La linea pugliese – come un’altra ventina di altre reti regionali interconnesse con quella nazionale – avrebbe dovuto adeguarsi entro il 2011 agli standard di sicurezza previsti da regole europee recepite dall’Italia con un decreto legislativo del 2007. Per ottenere quei “certificati di sicurezza”, però, servivano investimenti e stanziamenti. E allora si è proseguito così: la rete Rfi – quella dove viaggiano i vettori di Trenitalia, tanto per intenderci – è stata attrezzata e dotata delle migliori tecnologie che impediscono nella pratica che vi sia uno scontro perché in caso di errore la marcia del treno si arresta automaticamente.

Standard di sicurezza alti e regole stringenti sotto l’occhio vigile dell’Ansf, l’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria. Mentre le reti regionali hanno continuato a seguire le norme dell’Ustif, ente periferico del ministero dei Trasporti, che aveva maglie meno stringenti. Per questo, Ferrotramviaria poteva viaggiare affidandosi solo ai dispacci telefonici tra i capostazione come sistema di controllo del traffico. Dopo l’incidente, tutto è stato accelerato, tant’è che a molte ferrovie locali venne imposto di viaggiare al massimo a 50 chilometri orari in attesa degli adeguamenti. Una svolta che però a due anni di distanza era rimasta ancora, in buona parte, sulla carta.