Sono almeno quindici le vittime e decine i feriti – tra cui almeno una donna e due bambini, secondo i media locali – di un attentato nel celebre santuario di Shah Cheragh a Shiraz, nel sud dell’Iran. Mentre in diverse aree del Paese continuavano le proteste e le manifestazioni in ricordo dell’uccisione di Mahsa Amini – ieri ricorrevano i 40 giorni dal suo omicidio – che hanno visto migliaia di persone marciare verso la sua città natale di Saqez, nella quinta città del paese un uomo ha fatto ingresso nella moschea che ospita la tomba di Ahmad, fratello dell’ottavo Imam sciita Reza, aprendo il fuoco sui fedeli.
Le autorità iraniane in primo momento avevano parlato di almeno tre attentatori ma in seconda battuta Kazem Moussavi, capo dell’Autorità giudiziaria distrettuale, ha fatto sapere che l’attentato è stato realizzato da un solo uomo, Hamed Badakhshan, di nazionalità straniera, poi arrestato. L’Isis ha rivendicato l’attacco sulla propria agenzia Amaq. Secondo quanto riporta l’agenzia locale Tasnim, l’uomo sarebbe entrato nell’area antistante la moschea dopo aver sparato ad un funzionario che sorvegliava l’ingresso. In un primo momento il suo kalashnikov si sarebbe inceppato, tanto da dare il tempo ad alcuni fedeli di approcciarlo, nel tentativo di fermarlo. Una volta ripreso il controllo dell’arma, l’uomo avrebbe iniziato a far fuoco sugli stessi, uccidendone alcuni, e proseguendo poi all’interno del cortile interno della moschea, uccidendone altri. Dopo l’arresto, Bdakhshab sarebbe stato trasferito in ospedale, dove poi è deceduto in seguito alle ferite riportate.
Non è il primo attacco nella città di Shiraz: nel 2008 una bomba venne fatta detonare nei pressi della moschea Seyyed al Shuhada, uccidendo 14 persone. Lo scorso aprile invece un cittadino uzbeko di 21 anni aveva accoltellato a morte due religiosi e ne aveva ferito un terzo nel cortile del santuario dell’Imam Reza di Mashhad, uno dei principali luoghi sacri della tradizione sciita. Era stato poi condannato a morte nel giugno seguente, con l’accusa di moharebeh (“essere un nemico di Dio”). E non si tratta nemmeno del primo attentato ufficialmente rivendicato dall’Isis, poiché si aggiunge a quello portato a termine dal gruppo terroristico nel giugno 2017, col duplice attacco coordinato al Parlamento nazionale e al mausoleo di Ruhollah Khomeini, a Teheran, nel quale morirono 17 persone.
“L’esperienza dimostra che i nemici dell’Iran, dopo aver fallito nel tentativo di creare divisione all’interno della nazione, si vendicano attraverso la violenza e il terrorismo. A questo risponderemo, e le agenzie di sicurezza daranno una lezione a coloro che hanno pianificato l’attentato”, ha detto alle agenzie locali il presidente Ebrahim Raisi. Gli ha fatto eco il capo dell’Irgc, il generale Hossein Salami. “Dichiariamo fermamente: il fuoco della vendetta del popolo iraniano li raggiungerà (gli attentatori, ndr) e li punirà per i loro atti vergognosi”.
Nelle ore immediatamente successive all’attentato, contemporanee alla repressione della polizia degli enormi assembramenti di manifestanti al cimitero di Saqez dove è stata sepolta Mahsa Amini, si è speculato molto sulla tempistica e sulla ratio della carneficina a Shiraz. Non è sembrato bastare il fatto che l’Isis e prima di lei Al Qaeda, consideri la Repubblica islamica dell’Iran uno Stato illegittimo, e la popolazione a maggioranza sciita come “falsa musulmana”, e quindi meritevole di takfir. Non è sembrato sufficiente nemmeno il fatto che l’Isis abbia prontamente rivendicato: sono molti i commentatori che, nella fase forse più delicata per la Repubblica islamica da 40 anni a questa parte, avanzano sospetti legati all’ipotesi di un “false flag”, un attentato che le autorità iraniane si sarebbero auto inflitte.
La giornalista di Bbc persian Rana Rahimpour, ad esempio, ha ipotizzato che l’intelligence iraniana potrebbe aver organizzato l’attacco per tre motivi: corroborare la loro tesi sulla presenza di “gruppi stranieri” in questo mese di proteste nel paese; riportare dalla propria parte il segmento della popolazione più religioso del paese, che in buona parte si sarebbe allontanata in seguito ai giorni di brutalità poliziesca; fare leva sulla diffusa paura dello Stato islamico in tanti iraniani che hanno partecipato alle proteste, nella speranza che scendano meno in piazza. Altri hanno associato questo fatto all’incendio esploso giorni fa nella prigione di Evin, a Teheran, riconducendoli entrambi ad una strategia di “distrazione” da parte del regime.
Si tratta ovviamente di speculazioni, la cui risonanza è aumentata dalla incessante attività su Twitter da parte di attivisti, membri della numerosa diaspora iraniana o reporter, chi in buona e chi in cattiva fede. E’ poi una possibilità, sorretta da una certa logica, l’idea che questo attacco, rivendicato dallo Stato islamico, sia arrivato proprio nella consapevolezza, da parte del gruppo terroristico, che le forze di polizia iraniane sono in questo momento impegnate a reprimere proteste in oltre 40 città, e che quindi possano esserci “falle” nel dispositivo di pubblica sicurezza iraniano.
Quel che appare impossibile da ignorare è però la sensazione di una diffusa sfiducia nel racconto di qualunque fatto da parte dei media locali. In Iran vanno in scena proteste antigovernative sin dagli anni 90, e sin dal secondo decennio del nuovi millennio anche contro il regime in se stesso: nonostante ciò, ogni volta che nel paese si verificava un attentato – fino al 2005 moltissimi gli attacchi da parte del Mek e di Jundullah, quest’ultima attiva nel Sistan e Balucistan – la popolazione iraniana sembrava compattarsi.
Era successo anche 5 anni fa, un anno dopo le proteste del 2016 – e in una fase già di grande tensione e polarizzazione tra una parte della società civile ed il regime – quando ci fu il doppio attentato tra Majlis (il Parlamento) e il Mausoleo dell’ayatollah Khomeini, a Teheran, anche quello rivendicato dall’Isis. Stavolta qualcosa sembra esser diverso e il commento dell’attentato su Twitter, che ha prodotto vittime reali, è stato rapidamente sommerso dall’acceso dibattito che segue diverse linee di teorie del complotto, tra attivisti iraniani di diversa collocazione.
Lo spettro li raccoglie tutti, e fa luce sul livello di polarizzazione, di schizofrenia, a cui è arrivata la società, soprattutto grazie alle spinte del regime stesso, e a quelle della componente più oltranzista della comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti: si va da chi appunto attribuisce senza remore l’attentato alle autorità stesse a chi, dall’altro lato, crede che questo attentato si configuri come un innalzamento del livello di scontro deciso da quel segmento di popolazione percepito come “al soldo delle forze straniere”, in una nuova riedizione di una nota paranoia istituzionale. Appare altrettanto verosimile che la conseguenza più immediata di questo attentato possa essere un rafforzamento dei livelli di pattugliamento nelle strade e nei luoghi pubblici. Che promette di scontrarsi, non troppo tardi, con la inesauribile vitalità della protesta in corso che ha ormai superato il mese.