di Carmelo Sant’Angelo
Odiose, raccapriccianti, speciose, irrispettose, ingannevoli le parole indirizzate dalla neo Presidente Giorgia Meloni al senatore Roberto Scarpinato. Che vergogna la standing ovation dai banchi della destra! In piedi giubilante all’accusa di approccio “smaccatamente ideologico” che “è emblematico con cui una parte della magistratura ha costruito processi fallimentari, a cominciare dal depistaggio nel primo giudizio nella strage di via d’Amelio”. A scorticarsi le mani anche il novello ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Questa è la destra italiana! L’esibizione ostentata di una miseria intellettuale e culturale.
Ovviamente non arriverà una sola parola di solidarietà nei confronti delle toghe (ma neanche una velata critica nei confronti della premier) da parte di chi, avendo alte responsabilità istituzionali, avrebbe il dovere di far rispettare le regole costituzionali e la civile dialettica tra i poteri autonomi e indipendenti dello Stato.
Di solito costoro sono troppo impegnati a fare le analisi del sangue agli altri Paesi per contare se abbiano sufficienti globuli di atlantismo per potersi definire “democrazie”. Più probabilmente, detengono quelle stesse cariche sulla base di un malinteso “smaccatamente” italico, per cui l’imparzialità coincide con il silenzio.
L’artificio retorico utilizzato dalla premier è sempre lo stesso: è sufficiente dire “certa parte della magistratura”. Si tratta di quella porzione della magistratura, vituperata e combattuta dalla destra, che applica il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; è quella, per intenderci, che difende lo Stato di diritto attraverso l’affermazione del primato della legge.
La colpa di Scarpinato è stata quella di aver inchiodato la destra al suo passato; di aver ricordato che l’eversione di destra ha costituito la stampella degli apparati dello Stato, che si sono riservati la regia delle stragi e dei depistaggi; di aver palesato la propria diffidenza nell’enunciata volontà di contrasto alla mafia, “tenuto conto che il suo governo si regge sui voti di un partito di cui è leader un personaggio che ha avuto prolungati rapporti processualmente accertati coi mafiosi e che ha tra i fondatori Marcello Dell’Utri”.
Non è stato un intervento parlamentare, ma una requisitoria da pm. Una fredda e pacata elencazione di fatti giudizialmente accertati, di nomi ed eventi su cui il giudizio della storia è stato già scritto. È stata necessaria la caratura morale del giudice Scarpinato per poter allontanare da sé un atroce dubbio: “Ho messo in pericolo la mia vita e quella dei miei familiari, ho sottratto la serenità ai miei cari per consentire oggi a questo pezzo di élite del Paese di esultare per un maldestro affondo contro i magistrati. Ma ne è valsa la pena?”.
Quanta disonestà intellettuale ci vuole per equiparare Scarpinato al questore Arnaldo La Barbera, che il pentito Vincenzo Scarantino ha costruito, o al giudice Giovanni Tinebra, che lo ha gestito (e di cui non abbiamo ancora oggi saputo cosa si dicessero nei lunghi conciliaboli)? E com’è possibile mistificare in maniera così disinvolta la realtà, quando fu proprio il dottor Scarpinato nel 2011, da Procuratore Generale di Caltanissetta, a chiedere la revisione dei processi Borsellino 1 e bis a seguito delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza? Stessa mistificazione operata dal premier il giorno prima, alla Camera, dove ha accusato il decreto Bonafede di aver fatto uscire dal carcere i mafiosi con “la scusa del Covid”.
Non importa se tutte le leggi approvate dal governo Conte sancivano esplicitamente l’esclusione dei condannati per mafia (ma anche di qualsiasi reato grave) da tutti i cosiddetti benefici penitenziari. La realtà non deve disturbare la narrazione.
Non si può, dunque, che sottoscrivere in toto le parole del senatore Scarpinato: “Noi siamo le nostre scelte, onorevole Meloni, e lei ha scelto da che parte stare. Certamente non dalla parte degli ultimi, non dalla parte della Costituzione”. Un epitaffio sul governo appena nato, ma già morto nella culla del diritto.