Politica

Verona, no al tricolore per gli Alpini all’Arena: la destra cittadina insorge

Anche sui media nazionali, oltre che in rete, sono comparsi articoli sulla polemica della mancata concessione da parte della Soprintendenza d’illuminare l’Arena di Verona con il tricolore in occasione della festa dei 150 anni dalla fondazione del Corpo degli Alpini. La cosa in sé potrebbe non avere particolare rilevanza, se non la si collocasse in un contesto più generale.

Come noto, dopo 15 anni Verona è ora governata dal sindaco Damiano Tommasi, espressione di una coalizione di centrosinistra che è riuscita ad ottenere la vittoria per la stessa ragione speculare per cui il centrosinistra ha perso le elezioni nazionali, cioè perché la destra qui si è divisa, pur potendo contare storicamente su oltre il 60% dei consensi. Verona è una solida città di destra ad impronta fortemente clericale che sine cura ha sdoganato elementi palesemente neo-fascisti ed eletto l’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana, anche se i germi di un radicalismo di sinistra, soprattutto di matrice cristiano-sociale, persistono, mostrando di volta in volta inedite contraddizioni della città.

Il cambiamento ha colto un po’ tutti di sorpresa e forse anche un po’ impreparati ad affrontare una eredità particolarmente pesante e complessa, tanto più che il contesto delle forze economiche del territorio non nasconde la propria ostilità in una sorta di assedio paludato verso chi viene percepito come diverso, straniero.

Al di là degli scandali per malaffare, che emergono come punta d’iceberg da un prudente Palazzo di Giustizia, la città, o meglio il suo centro storico su cui s’intende circoscrivere l’attenzione, ha subìto una profonda metamorfosi per effetto di un turismo aggressivo e sgangherato che sta cambiando il volto e la natura di molte città italiane, che hanno visto proprio nel turismo la possibilità di compensare una congiuntura economica sfavorevole determinata soprattutto dalla delocalizzazione di molte attività manifatturiere.

Gli esempi nazionali non mancano di certo, unico sopra tutti Venezia che ha costituito un modello di riferimento, quasi invidiato, per altre città viciniori come Verona. Gli effetti sono devastanti: progressiva scomparsa dei negozi di vicinato schiacciati dalla concorrenza di centri commerciali sempre più grossi e sempre più numerosi che schierati sui confini della città si cannibalizzano a vicenda, sostituzione degli esercizi commerciali con ristorazioni di ogni genere e tipo, che in nome prima della pandemia e poi del caro-bollette hanno conquistato i cosiddetti plateatici extra-large che invadono piazze, strade, marciapiedi, financo i monumenti storici.

Ovviamente i rifiuti dei cassonetti, dove conferiscono indifferentemente residenti e ristoratori traboccano e richiamano topi, la Ztl per rendere più penetrabile il centro storico alle orde turistiche ed al loro supporto logistico, è diventata un colabrodo e il parcheggio selvaggio inevitabilmente tollerato da amministrazioni che hanno scientemente puntato a fare della città antica un palcoscenico gratuito per ogni sorta d’incalzanti manifestazioni enogastronomiche. Cambiano solo di nome e trasformano la città in una sarabanda, lasciandola ogni volta disfatta alle luci dell’alba.

Anche in Arena ormai i cosiddetti concertoni rock, quelli che si ospitavano solo negli stadi, sono più numerosi degli spettacoli di opera lirica cui un tempo era dedicato il più bel palcoscenico del mondo, ora minato nella sua struttura da vibrazioni sonore sempre più potenti e addirittura da fuochi di artificio sotto i quali un inedito pubblico canta e balla. I residenti sempre meno numerosi e sempre più anziani vivono tra rabbia e rassegnazione e i giovani figli che ne ereditano il patrimonio immobiliare non hanno altra scelta che andare a vivere in provincia ed affittare le proprie residenze all’unica offerta di mercato possibile, cioè a quella dei turisti, i soli soggetti in grado di accettare di vivere per pochi giorni di vacanza in un simile caos. Un vero e proprio effetto valanga che ha consegnato la macchina amministrativa della citta, compresa la Polizia Locale, a servizio della più spregiudicata deregulation.

Ebbene, in questo contesto arrivano gli Alpini con la loro manifestazione e, abituati da sempre a non cimentarsi con alcun vincolo storico-paesaggistico, chiedono il permesso d’illuminare l’Arena con il tricolore e di occuparne la piazza, così, all’ultimo momento e senza tanto spiegare cosa volevano fare, perché mai nessuno glielo ha chiesto prima. Da un paio d’anni però è cambiato il Sovrintendente alle Belle Arti. Si chiama Vincenzo Tinè e ha un curriculum di tutto rispetto, tra cui docenze universitarie e pubblicazioni scientifiche di pregio. In coda di attenuazione pandemica, ha cominciato a farsi sentire verso le più insopportabili aggressioni estetiche alla città antica, trovando per la prima volta un interlocutore sensibile nella rinnovata amministrazione comunale.

Consapevole dell’ampiezza del salto da compiere per restituire un po’ di dignità e decoro ad un centro storico, calpestato da rozzi e miopi interessi di lobby spacciati come volano di promozione della città, ha scelto di procedere per gradi, tenendo conto dei vincoli oggettivi conseguenti ad impegni formali già assunti dalla precedente amministrazione, come i concertoni in Arena e tante manifestazioni di dubbio gusto che impattano pesantemente sotto diversi profili.

Di fronte alla richiesta fuori tempo e fuori protocollo degli Alpini “ha osato” proferire un “no”, seppur parziale, che non avrebbe assolutamente compromesso l’iniziativa, limitandosi a pretendere di rispettare il monumento simbolo della città, come peraltro previsto dai doveri istituzionali della Soprintendenza. Apriti cielo. Il rigurgito della destra che ha mancato le elezioni locali si è espresso in tutta la sua virulenza fino a chiedere da parte di esponenti politici locali che ricoprono cariche regionali e nazionali “la testa di Tinè”, addirittura per intervento diretto del neo-ministro a lui sovraordinato. Tutto questo in nome di un bolso patriottismo che ha vissuto come sgarbo ed ingratitudine verso il glorioso Corpo degli Alpini, che peraltro si è speso anche nella lotta contro la pandemia, il semplice richiamo al rispetto di un iter amministrativo.

Il sindaco Tommasi, accusato dagli avversari di essere “schiavo” del Sovrintendente, indicato invece da molti veronesi come proprio “difensore civico”, si appella all’esigenza di scrivere o riscrivere nel confronto tra le parti le regole di una città che ha smarrito ogni istanza comunitaria scivolando verso una pericolosa deriva per il prevalere di famelici interessi particolari. Senza il supporto di un rinnovato spirito civico dei residenti rischia però la solitudine, soprattutto se, come purtroppo accaduto, qualche suo assessore si sfila, scusandosi pubblicamente con gli Alpini perché la città non ha saputo accoglierli degnamente concedendo subito loro tutto il dovuto.

Un brutto segnale che speriamo rientri per una città che ha deciso di tentare una Resistenza in uno scenario nazionale tra i più complicati del secondo Dopoguerra.