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Berlusconi vuole anche le deleghe all’Editoria e impone un uomo Mediaset alle provvidenze: Alberto Barachini in pole come sottosegretario

L'apoteosi del conflitto d'intessi. L’uomo di Arcore impone l'ex giornalista e conduttore delle reti del Biscione al bancomat di Stato che sostiene giornali e tv pompando centinaia di milioni. Sulla delega Berlusconi s'è impuntato, con un occhio alla vendita de "Il Giornale" e l'altro sul cartello dei quotidiani di destra

A Mediaset l’uomo delle provvidenze. Silvio Berlusconi vuole un ex conduttore dipendente delle sue TV a capo del Dipartimento all’editoria. Il nome listato in una cartelletta rossa esibita in Senato, è quello del forzista Alberto Barachini, giornalista ed ex anchorman Mediaset (che ha iniziato la carriera accanto a Emilio Fede al Tg4) già presidente della Commissione di Vigilanza Rai. L’uomo giusto cui affidare i bottoni del finanziamento pubblico al settore, con effetti diretti e indiretti anche sulle “società caratteristiche” del Biscione, vale a dire Mediaset, Mondadori e Il Giornale. Così, dopo giustizia, difesa e turismo il ritorno di Silvio Berlusconi sancisce il trionfo del conflitto di interessi come cifra della politica italiana.

I retroscena sulle trattative di governo raccontano come si sia impuntato su quella delega. L’importanza di saldare gli interessi delle aziende di famiglia alla governabilità del Paese è stata anche certificato dall’intervento dei figli Pier Silvio e Marina Berlusconi in versione “pompieri”, per spingere il fondatore di Forza Italia a ricucire i rapporti con Giorgia Meloni, prima e dopo lo strappo del Senato. Le trattative nel centrodestra su viceministri e sottosegretari avrebbero avuto proprio in quella casella la chiave di volta anche nel braccio di ferro sul ministero della Giustizia. La sconfitta di Berlusconi gli vale il premio di consolazione dell’editoria. Ma perché?

La struttura sotto l’ombrello della Presidenza del Consiglio di fatto è la “cassa” pubblica che tiene in piedi un settore in crisi da anni ma ulteriormente colpito dal crollo delle vendite, dall’ aumento dei costi di carta ed energia, come ben sa la famiglia Berlusconi: a febbraio sembrava prendere corpo la vendita del Il Giornale che naviga in pessime acque, ipotesi poi congelata dopo la “disfatta” della battaglia per il Quirinale e in vista del voto. Congelato anche il progetto esplorativo di un “cartello” delle testate del centrodestra che comprendesse Libero e Il Tempo di Angelucci per competere col gruppo Gedi (Repubblica, La Stampa, 10 giornali locali e le radio). Ed ecco il punto: se quel “bancomat di Stato” pompa centinaia di milioni al settore, tra contributi diretti e indiretti, le grandi manovre possono riprendere, e ad asset non svalutati.

La questione è tanto sentita dalle parti di Arcore che Forza Italia era riuscita a metterci sopra le mani pure col governo Draghi: in ossequio al sostegno ricevuto, l’ex governatore della Bce nominò il vicepresidente forzista del Senato Giuseppe Moles. Il sottosegretario non è stato ricandidato, ha fatto pure la campagna elettorale per la Casellati in Basilicata ma non è stato confermato nell’incarico nonostante meriti che rivendica: su tutti, quello di aver resuscitato i contributi all’editoria flagellata dai rincari: per legge, sarebbero dovuto cessare a partire da quest’anno, ma a suon di proroghe andranno avanti fino al 2028.

A imboccare la strada della cancellazione era stato il Governo Conte I. Nella legge di bilancio 2019 aveva inserito una disposizione per il progressivo abbattimento della contribuzione diretta, già prevista dal decreto Lotti del 2017, e la sua “cancellazione” a decorrere dal 1° gennaio 2022. Si salvavano solo quelli alla stampa italiana all’estero, a giornali delle minoranze linguistiche, all’editoria speciale periodica per non vedenti e a tutela dei consumatori (legge 30 dicembre 2018, n. 145).

Le vie delle “Provvidenze” sono però infinite: il termine è stato posticipato di anno in anno e il Governo Draghi ha mandato la palla in tribuna differendo le riduzioni al 2025 e la cancellazione totale al lontano 2028. Così nel 2020 i fondi, che dovevano diminuire, sono addirittura aumentati del 120%, passando da 175,6 milioni a 386,6. Nel 2021 sono piovuti 500 milioni tra contributi diretti e indiretti. Un mese fa l’ultimo scroscio, quando il Dipe ha sbloccato 230 milioni di “fondi straordinari” per il 2022-2023: 12 per assunzioni , 28 come contributo in base alle copie vendute, 35 come contributo per gli investimenti innovativi nelle tv nazionali e locali, quotidiani e periodici. La notizia, sarà un caso, passa quasi in sordina. Notizia di oggi: la Commissione Ue ha dato disco verde ad altri 120 milioni di sostegni, in forma di credito d’imposta fino al 30% dei costi, agli editori di giornali e periodici dell’Italia per il biennio 2022-2023: non saranno considerati aiuti di Stato.

Il conflitto di interessi di cui sopra ne genera altri. Si trascina irrisolto, e non per caso, il tema dei requisiti per l’accesso ai contributi. Oltre a cancellarli ai “fogli politici”, il decreto Lotti del 2017 aveva previsto una stretta sugli editori campioni di camouflage che si travestivano da cooperative, fondazioni e associazioni traferendo la maggior parte delle quote a organismi fittizi, continuando così a distorcere il mercato e la concorrenza. Eclatante, ma non unico, il caso di “Libero”: spacciandosi per organo del “Movimento Monarchico” prima e come la cooperativa di giornalisti che non era dopo, ha goduto di 61 milioni di euro di contributi pubblici nell’arco di 20 anni, salvo doverne restituire quasi la metà a causa di un processo scaturito proprio dall’accertamento delle irregolarità commesse. Che non ha impedito di ricevere altre: nel 2021 Libero ha ricevuto altri 2,7 milioni. La riforma Lotti del 2017 (art. 2, comma 1, lett. b) concedeva agli editori cinque anni per mettersi in regola dalla data di entrata in vigore della legge delega n. 198 del 2016. Grazie Milleproroghe del governo Draghi (art. 2-bis del decreto-legge n. 228 del 2021) anche questo il limite è differito al 2028.

Un’altra grana dalle parti del Dipe? Resta circondato dalle nebbie il tentativo di recuperare 80 milioni di euro di indebite contribuzioni risultate dai controlli incrociati in collaborazione con la GdF dal 2009 che hanno fatto emergere “irregolarità e comportamenti patologici”. Da una nota “in aggiornamento” sul sito del Dipe, senza data, si sa che 29 milioni sono stati iscritti a ruolo in esecuzioni di sentenze, ma non l’esito delle procedure di riscossione coattiva; 23 milioni sono stati ammessi come insinuazioni al passivo nelle procedure concorsuali cui le imprese editrici sono state assoggettate; altri 13 milioni sono stati ammessi al recupero dilazionato, 5 sono stati oggetto di compensazioni sui crediti maturati a titolo di contributo dalla imprese editrici.

La nota spiega come il “recupero degli indebiti accertati si rivela complesso e incerto, spesso oggetto di controversie giudiziarie non sempre favorevoli all’istituzione, anche quando si è costituita nei procedimenti penali pendenti per l’accertamento delle ipotesi di reato di truffa ai danni dello Stato per indebita percezione di contributi pubblici“. Il Fatto ha chiesto il dettaglio aggiornato dei soggetti interessati dal recupero, le cifre e l’esito, nella quasi certezza che irregolarità e pendenze non siano stati valutati motivo di esclusione per ulteriori erogazioni. In un mese la risposta non è mai arrivata. Ha fatto prima il sottosegretario di Fi a decadere dall’incarico. Per far largo a un altro di Fi ma che è anche dipendente di Mediaset. La Provvidenza, continua.