“Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nonostante le diverse circolari emanate dal capo pro tempore all’inizio della pandemia non ha dimostrato di saper gestire l’impatto della diffusione del virus sul sistema carcerario, già ‘provato’ dal persistente fenomeno dell’affollamento. È infatti emerso che è mancata una programmazione, una lungimiranza nel prevedere le inevitabili ricadute dell’epidemia sulle condizioni di salute delle persone detenute”. E’ quanto si legge in un passaggio della bozza di relazione su ‘Profili di contrasto alla criminalità organizzata nel corso dell’emergenza sanitaria con particolare riferimento all’esecuzione penale’, approvata al termine della scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare Antimafia. La relazione è stata resa pubblica solo ora. Palazzo San Macuto ha infatti esaminato il fenomeno delle scarcerazioni dei detenuti durante l’emergenza Covid, che creò scalpore anche perché alcuni esponenti di organizzazioni mafiose -come Pasquale Zagaria e Francesco Bonura – vennero liberati direttamente dal regime di 41 bis.

“Occorreva elaborare un piano” – La Commissione osserva che “la diffusione del Covid-19 è cominciata in un momento di sovraffollamento imperante” nelle carceri e inoltre le condizioni in cui versavano gli istituti di pena “non favorivano certo le misure sanitarie di prevenzione del contagio e della diffusione del virus diffuse dal governo a livello nazionale”. L’Antimafia spiega che dunque occorreva “elaborare un piano, condiviso a più livelli tra tutti gli attori, per garantire, in condizioni di sicurezza, il massimo dell’erogazione dei servizi sanitari, anche al fine di evitare che detenuti di spicco, strumentalmente, approfittando della pandemia, si sottraessero all’esecuzione della pena. In un momento particolare di emergenza sanitaria si sarebbe dovuto considerare il pericolo che il virus potesse entrare all’interno delle carceri e quindi la conseguente gravità della sua diffusione tra i ristretti, e fare in modo che ciò non avvenisse”. Al contrario, secondo quanto si sottolinea nella relazione, la gestione dell’emergenza sanitaria da parte dell’amministrazione penitenziaria “si è basata sulla mera adesione alle generali linee guida fornite dal Ministero della salute, che non erano destinate ad affrontare le peculiari esigenze della realtà penitenziaria”.

La circolare – Il riferimento è alla nota circolare del Dap che elencava una lista delle patologie che esponevano al rischio contagio Covid i detenuti. Solo che in quell’elenco era finita anche una determinata condizione che patologia non è: avere più di 70 anni. Solo che non si faceva alcuna differenza tra le situazioni dei detenuti: i carcerati comuni e i boss mafiosi erano considerati allo stesso livello di pericolosità. Quella nota sarà citata più volte nei provvedimenti dei giudici di Sorveglianza con i quali saranno concessi i domiciliari a decine di apparteneneti alla ‘ndrangheta, a Cosa nostra e alla Camorra. Boss che erano reclusi al 41 bis e soprattutto in regime di Alta sicurezza. “Si è quindi avuta una valutazione della situazione non del tutto adeguata, inidonea a consentire un’azione efficace all’interno degli istituti penitenziari”, osserva la Commissione convinta che sia “mancata una preventiva, autonoma azione di programmazione strategica”. C’è stato quindi, secondo la commissione che era presieduta da Nicola Morra, “un graduale passaggio da una prospettiva per cui bisognava lavorare soprattutto in concorso, in sinergia con i centri ospedalieri e le residenze sanitarie protette, ad un’altra, per la quale, invece, era necessario ampliare il novero delle misure alternative alla detenzione perché evidentemente di più facile gestione”.”E ciò – conclude – nonostante il governo avesse già cercato di risolvere il problema dell’affollamento carcerario attraverso il decreto ‘Cura Italia‘ per favorire la concessione della detenzione domiciliare per le pene inferiori ai 18 mesi. Se è mancata programmazione a livello generale ancor più evidente appare carente la dovuta attenzione ai detenuti condannati per delitti di criminalità organizzata”.

“Regia mafiosa dietro le rivolte? Ipotesi fondata ma da verificare” – Nella relazione si ragiona anche sulle rivolte avvenute nei penitenziari nei primi giorni della pandemia. “L’ipotesi fondata, ma ancora da verificare sul piano processuale – si legge – è che dietro le proteste, le sommosse, i tumulti e le violenze, ma anche dietro le manifestazioni esterne di appoggio, ci possa essere stata una regìa o un sostegno di matrice mafiosa, rende ancora più urgente l’adozione di metodiche e tecnologie tese ad impedire che i detenuti, anche di elevata pericolosità, possano comunicare con l’esterno. Sul punto, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha informato la Commissione che i Procuratori distrettuali più direttamente interessati al controllo dei detenuti sottoposti al regime differenziato ex art. 41-bis O.P., per l’elevato numero di detenuti sottoposti a tale regime, hanno condiviso l’esigenza di una ‘schermatura degli istituti penitenziarì per bloccare il fenomeno dell’uso dei telefoni cellulari”. A questo proposito la commissione sottolinea come “nelle sezioni detentive sempre più frequentemente vengono rinvenuti telefonini, smartphone, sim card, in uso ai detenuti. Questa situazione, oltre a consentire le comunicazioni con l’esterno anche per programmare o decidere l’esecuzione delle attività criminali, ha verosimilmente agevolato la concertazione delle rivolte dei primi di marzo del 2020″. Quindi Palazzo San Macuto fa un paragone tra “la concomitanza delle proteste avvenute nelle carceri su tutto il territorio nazionale e dalla presenza di presidi dei familiari e di manifestazioni a sostegno all’esterno degli istituti stessi. Non a caso alle rivolte non hanno partecipato i vertici delle organizzazioni mafiose e i soggetti ristretti all’art. 41-bis O.P., né può, d’altronde, ritenersi che i detenuti sottoposti a questo regime differenziato siano in ambienti assolutamente impermeabili alle comunicazioni con l’esterno o che non possano sapere cosa succede nel proprio carcere o che non riescano, ipoteticamente, a dirigere o fornire il placet all’avvio e all’esecuzione di iniziative anche concertate o complesse, come gli eventi del marzo 2020. A riprova, si ricorda il rinvenimento, quattro mesi prima delle rivolte, di tre telefoni cellulari nel reparto 41-bis O.P. di Parma”.

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