di Claudia De Martino
Sembra che la tendenza globale a virare a Destra non si stemperi, anzi acquisisca ogni giorno nuovi Paesi. In realtà in Israele non costituisce affatto una novità, governando la Destra quasi ininterrottamente dal 1996, ed essendo il Paese ebraico contrassegnato da un saldo nazionalismo etnico-religioso come valore bipartisan condiviso dalla maggioranza ebraica (secondo il ricercatore Or Anabi, dell’Istituto di Democrazia israeliana, attualmente il 60% della popolazione ebraica si identifica con la Destra).
Tuttavia, il prossimo martedì 1° novembre la nuova maggioranza di Destra che potrebbe uscire dalle urne potrebbe non rappresentare una semplice riedizione dei governi precedenti, ma un’inquietante novità, specchio di un Paese in cui tre elettorati prima marginali – quello dei coloni, dei nazionalisti-religiosi e dei sovranisti (Itamar Ben-Gvir) – potrebbero acquisire una centralità politica mai avuta prima.
Il “Governo del Cambiamento”, creato dalla strana ed eterogenea alleanza tra il centro di Yair Lapid (C’è futuro) e la Destra religiosa di Naftali Bennet (la Nuova Destra), uniti esclusivamente dall’avversione alla figura politica di Netanyahu e dal tentativo di impedirne la rielezione, è durato appena più di un anno (dal giugno 2021) per dissolversi a seguito della defezione di alcuni deputati della Nuova Destra e di Meretz. Tale governo, nonostante i buoni risultati conseguiti tanto sul piano sia interno (ad esempio, il passaggio della legge finanziaria sul bilancio annuale dello Stato, il piano per la creazione di un milione di posti di lavoro nel settore dell’high-tech, etc.) che esterno (ad esempio la prosecuzione degli Accordi di Abramo, il recentissimo accordo con il Libano sullo sfruttamento dei giacimenti di Karish e Qana, etc.), che però non sono stati sufficienti per spostare un forte consenso dell’elettorato verso la coalizione di governo.
Al contrario, la Nuova Destra si è dissolta per non esistere più, con l’ex Premier Naftali Bennet che si è ritirato dalla vita politica, mentre il partito di centro di Lapid, Premier ad interim uscente, dai sondaggi non sembra esser stato capace di capitalizzare sulla riacquistata stabilità del Paese, o almeno non abbastanza da sconfiggere la coalizione di Netanyahu.
Quest’ultimo, che sembrava essere stato eliminato dalla scena politica dai tre processi per frode e concussione attualmente in corso e dalla forte ostilità di un fronte eterogeneo ma compatto di forze politiche, inclusi alcuni suoi ex alleati di partito come Gideon Sa’ar, si ripresenta ancora oggi come l’unica figura dotata di un’autorevolezza tale da ricompattare i ranghi della Destra dall’ala religiosa a quella nazionalista, ma anche e soprattutto di resistere alle presunte pressioni esterne dell’Amministrazione Biden, la cui prova sarebbe il troppo accomodante discorso tenuto dal Premier uscente Lapid all’Assemblea generale dell’Onu lo scorso 22 settembre.
In una campagna elettorale completamente priva di idee e programmi – tutte le maggiori forze politiche concordano sui grandi temi, tra cui la prosecuzione indisturbata delle colonie, l’estensione degli Accordi di Abramo ad altri potenziali partners arabi, lo sfruttamento delle nuove risorse energetiche provenienti dai giacimenti di gas offshore, la repressione attraverso assassini mirati della guerriglia palestinese e in particolare del nuovo gruppo “Tana del Leone” di Nablus, l’unica differenza macroscopica a separare la Destra pro-Netanyahu dal centrodestra è la retorica sui due Stati e sul rapporto con la minoranza palestinese interna, l’unica componente alla quale non è facile sottrarre impunemente diritti.
Lapid, che ha avuto il coraggio, per la prima volta nella storia d’Israele, di includere un partito arabo – la Lista Araba Unita (Ra’am) di Abbas – nel “governo del cambiamento” sembra ora indietreggiare su questo punto, caldeggiando non più la partecipazione, ma solo il sostegno esterno dei partiti arabi ad un futuro governo di coalizione a sua guida: ciò comporta che nessun partito arabo d’Israele abbia la prospettiva di partecipare al prossimo esecutivo, da cui deriva il diffuso sentimento di irrilevanza, sommata ad aspre divisioni interne, dei quattro partiti arabi e la forte propensione all’astensionismo della minoranza araba, contro il cui voto pure la Destra di Netanyahu è tornata a tuonare come una minaccia per la democrazia.
La sistematica delegittimazione della minoranza araba è propagandata non solo dal Likud, ma in forma ancora più estrema dai Sionisti Religiosi di Itamar Ben Gvir (Orgoglio ebraico), Bezalel Smotrich e la piccola fazione anti-Lgbt Noam (“Gradevolezza”), suoi alleati, proiettati a diventare la terza forza politica del Paese e sostenitori di vere e proprie politiche di deportazione degli arabi “sleali alla nazione”, anche se dal 2018 tale Stato-nazione si autodefinisce esclusivamente ebraico.
Il partito ha capitalizzato sull’esteso dissenso nell’opinione pubblica israeliana, soprattutto giovanile, a includere la minoranza araba nel “gioco politico”. I giovani israeliani, infatti, pur contando su una salda maggioranza ebraica e su sempre migliori relazioni estere del Paese con i propri vicini arabi, si percepiscono ancora a maggioranza come una cittadella assediata, ovvero come potenziali vittime di un’indiscriminata violenza palestinese a cui non attribuiscono alcuna legittimità, non comprendendone origine e motivazioni: un vittimismo che ben si coniuga con un acceso nazionalismo, intollerante delle differenze.
Ad una fetta dell’elettorato giovanile, crescentemente religioso, che ha smarrito il contatto interpersonale con i propri coetanei palestinesi, il Likud e i Sionisti Religiosi offrono una narrazione monocorde che ritrae la minoranza araba esclusivamente come una quinta colonna interna, strumentalizzando recenti fatti di cronaca come le violenze arabo-ebraiche scoppiate nelle città miste nel maggio del 2021. Tale campagna elettorale spiana così il terreno ad un ritorno di una Destra a guida Netanyahu che non sarà una semplice riedizione dei governi precedenti, ma la rappresentazione plastica di un Paese sempre più forte sulla scena internazionale che pure non vuole cedere nulla sul fronte interno dei diritti e che è pronto a mettere a rischio le sue fondamenta democratiche per abbracciare un nazionalismo etnico e militante.