A pochi giorni dalla nuova udienza della Consulta, Fratelli d'Italia fa proprio il testo già approvato il 31 marzo scorso dalla Camera, su cui però si era astenuta considerandolo troppo permissivo: "Solo un intervento di urgenza può oggi consentire di adempiere al monito della Corte", si legge nella relazione al decreto. Rinviata di due mesi, invece, l'entrata in vigore del maxi-decreto delegato di riforma penale, che rischiava di mandare in crisi organizzativa gli uffici giudiziari. Accogliendo le richieste dei magistrati, si ammette che "risulta indispensabile differirne l’applicazione"
Il governo Meloni parte dalla giustizia. All’ordine del giorno del Consiglio dei ministri in programma lunedì alle 12 ci sarà un decreto legge con due misure considerate urgenti: il superamento delle attuali norme sull’ergastolo ostativo, richiesto dalla Corte costituzionale ormai un anno e mezzo fa, e il rinvio di due mesi dell’entrata in vigore del maxi-decreto delegato di riforma penale varato dall’ex ministra Marta Cartabia, che rischia di mandare in crisi organizzativa gli uffici giudiziari di tutta Italia. La modifica dell’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario – che esclude la liberazione condizionale dei condannati definitivi per mafia e altri gravi reati che non abbiano collaborato con la magistratura – non è più rinviabile “alla luce dell’udienza della Corte Costituzionale fissata per l’8 novembre 2022“, ricordano le fonti di governo: con l’ordinanza di maggio 2021 che aveva dichiarato l’incostituzionalità, infatti, la Consulta aveva dato al Parlamento un anno di tempo per modificare la norma, in modo da non doverla cancellare tout court rischiando di spalancare le porte delle carceri ai boss. Un disegno di legge in questo senso (relatore il M5s Mario Perantoni) era stato approvato dalla Camera il 31 marzo scorso, e a maggio 2022 la Corte aveva rinviato la decisione di altri sei mesi (fissando l’udienza all’8 novembre prossimo, appunto) per consentire anche l’ok del Senato. Che però è stato impedito dalla fine anticipata della legislatura.
Ricordando questi passaggi, la relazione illustrativa al decreto – che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare – sottolinea che “solo un intervento di urgenza può oggi consentire di adempiere al monito della Corte”: un nuovo testo presentato in Parlamento, infatti, dovrebbe iniziare da capo l’iter e verrebbe approvato ben oltre la scadenza dell’8 novembre. Il provvedimento, comunica la nota di palazzo Chigi, “ricalca il disegno di legge già approvato nella passata legislatura dalla Camera dei deputati”. In quel voto però Fratelli d’Italia si era astenuta, considerando le nuove norme troppo poco stringenti, mentre ora le fa proprie. La nota spiega infatti che il decreto “punta a evitare le scarcerazioni facili dei mafiosi, perché permette l’accesso ai benefici penitenziari al condannato che abbia dimostrato una condotta risarcitoria e la cessazione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata. Una corsa contro il tempo per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”, è il commento. Nello specifico – si legge nella relazione al testo – per ottenere i benefici gli ergastolani condannati per reati associativi dovranno allegare l’esistenza di “elementi specifici che consentano di escludere (…) sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Inoltre, dovranno dimostrare di “aver adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”. E non potranno chiedere la liberazione condizionale prima di aver scontato trent’anni di pena carceraria.
Ancora, si specifica – come già faceva il ddl approvato alla Camera – che gli elementi da portare di fronte al giudice di Sorveglianza per ottenere l’accesso ai benefici “dovranno essere diversi e ulteriori rispetto (…) alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale”. E per decidere se accogliere o meno la richiesta, il magistrato dovrà “tenere conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”; nonché “accertare la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”. Prima di rispondere all’istanza, inoltre, il giudice “ha l’obbligo di chiedere il parere (…) del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo”, nonché di acquisire informazioni dalla direzione del carcere in cui è detenuto e di disporre nei suoi confronti “accertamenti in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali, al tenore di vita, alle attività economiche eventualmente svolte e alla pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali”. Una fitta serie di paletti, dunque, che dovrebbe rendere molto arduo, per un boss ancora pericoloso, ottenere di uscire dal carcere pur non avendo mai collaborato. O almeno questa è l’intenzione del legislatore.
Per quanto riguarda la riforma Cartabia, invece, il nodo sta nell’entrata in vigore del decreto legislativo delegato prevista per il 1° novembre, che rivoluziona numerosi aspetti del codice penale e della procedura, introducendo nuove scadenze, adempimenti e passaggi processuali. La mancanza di una norma transitoria (che cioè delimiti nel tempo l’applicazione della riforma) sta causando vari problemi organizzativi nelle Procure, costrette ad adattare alle nuove regole le migliaia di procedimenti in corso. Martedì scorso 26 procuratori generali si erano rivolti con una lettera al neo-ministro Carlo Nordio, chiedendo di mettere in campo “interventi normativi per il coordinamento tra il vecchio e il nuovo sistema e l’eliminazione di alcune sfasature riscontrate nel testo del decreto legislativo”, nonché una “disciplina transitoria per alcuni aspetti relativi alla tempistica”. Il provvedimento che il governo si appresta a varare recepisce le istanze delle toghe: “Risulta indispensabile differire l’applicazione al fine di consentire l’approntamento delle misure organizzative necessarie affinchè la riforma possa esplicare utilmente tutti i suoi effetti positivi”, si legge nella relazione. Che precisa: Il rinvio dell’entrata in vigore è contenuto entro la data del 30 dicembre 2022, in quanto si tratta di un lasso di tempo certamente sufficiente ai fini indicati e che permette di mantenere gli impegni assunti in relazione al Pnrr”. Il piano, infatti, prevede che le nuove norme diventino legge entro la fine dell’anno. Dal Partito democratico, però, si paventano conseguenze sui fondi per la ripresa: “La riforma della giustizia penale deve entrare in vigore nei tempi previsti. Nessun rinvio è possibile, se vogliamo salvaguardare le risorse del Pnrr”, dice la vicecapogruppo alla Camera Simona Bonafé.