È passato un anno da quando Rudy Guede, unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia nel novembre del 2007, è uscito dal carcere. Intervistato dal Corriere della Sera, ha ripercorso i fatti avvenuti nel tristemente noto appartamento di via della Pergola, che ha raccontato anche in un libro, Il beneficio del dubbio, scritto con Pierluigi Vito. “Non ho ucciso Meredith Kercher, lo ripeto più che mai adesso che ho finito di pagare il mio conto alla giustizia“, ribadisce ancora una volta Guede, ora 35enne. “Nelle mie sentenze c’è scritto “in concorso con Amanda Knox e Raffaele Sollecito” e nessuno dei giudici mi ritiene autore materiale del delitto. Poi loro due vengono assolti. Allora io chiedo: con chi ho concorso? Hanno respinto la revisione del mio processo, ma è un controsenso logico. La giustizia italiana dice che ho compiuto un crimine con due persone specifiche ma non come autore materiale. Loro escono di scena e quindi il carcere lo sconta una persona che non si capisce di cosa sia colpevole e con chi. Un condannato impossibile. O forse il condannato ideale: il negretto senza famiglia, senza spalle coperte, senza un soldo”, attacca.

Guede non nega di essere stato in quella casa. Conferma di essersi scambiato delle effusioni con Meredith e di aver avuto un approccio sessuale. “Poi sono andato in bagno, ma ho sentito un urlo potente, malgrado avessi le cuffiette con la musica a palla. Sono uscito e nella penombra ho visto uno sconosciuto con un coltello in mano. Poi lo sentii dire ad Amanda “Andiamo via che c’è un negro”. E ho visto Meredith”. Eppure nel libro sono descritti alcuni comportamenti colpevoli. “All’improvviso il mio cervello è scoppiato. La vita di Mez (il diminutivo con cui chiamava Meredith, ndr) che se ne stava andando fra gli spasmi. Gli asciugamani non bastavano a tamponare il sangue. Io non avevo fatto niente, ma chi mi avrebbe creduto? E allora, in preda al panico, ho fatto un errore dopo l’altro. Un comportamento criticabile, è vero. Ma questo non fa di me un assassino. La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco, lasciando Mez forse ancora viva. Ma avevo vent’anni e avevo davanti una ragazza agonizzante, l’ho soccorsa ma poi la mente è andata in tilt. Magari sarebbe morta lo stesso, ma non aver chiesto aiuto resta la mia grandissima colpa“. Riguardo alla sua condanna per violenza sessuale, invece, dice di aver spiegato tutto nel suo libro, dubbi e incongruenze comprese: “La sostanza è che è stato trovato il mio dna. Dna, non sperma. Come ho sempre detto, stavamo per avere un rapporto sessuale ma ci siamo fermati perché senza preservativi. Eravamo due adulti consenzienti“.

Ora, dopo quindici anni, Guede ha di nuovo una vita, un lavoro e una casa: “Di mattina ho un impiego alla biblioteca del Centro Studi Criminologici di Viterbo, pomeriggio e sera invece faccio il cameriere in una pizzeria. Mi manca solo la tesi per la laurea magistrale al corso di Società e Ambiente. E poi ho una fidanzata, stiamo cercando una casa per andare a vivere insieme”. Racconta anche di aver scritto una lettera alla famiglia di Meredith, rimasta senza risposta. “Ho fatto avere a sua madre un altro messaggio anche di recente, per dirle ancora una volta del mio dispiacere per Mez e che le mie mani si sono macchiate di sangue, sì, ma soltanto per soccorrerla. Mi farebbe piacere incontrarla, un giorno”. Non ha voglia, invece, di parlare con Amanda Knox e Raffaele Sollecito: “Non ho più voglia di dirgli niente. Ne hanno dette talmente tante loro sul mio conto che per me non ha più senso dargli corda e spazio. Io ho la coscienza a posto anche nei loro confronti. Per tutti questi anni sono stato dentro, sì, ma la mia mente era libera, pulita”.

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