Il regista svedese Ruben Ostlund costruisce il film su tre parti/spazi differenti: lo scontro uomo/donna del suo Forza Maggiore nella prima parte; un Titanic intriso di mentine alla Monty Python nella seconda parte; infine nella terza accenna ad un episodio di Lost venato di sopraffazione e sessualità disarticolata a fini di sopravvivenza
È ora della Palma d’Oro 2022, Triangle of sadness. Grazie a Teodora, esce in Italia con 80 copie il sesto lungo del regista svedese Ruben Ostlund (da noi in sala sono usciti solo Forza maggiore e The square). E si tratta, come sempre, di un cinema spiazzante, anticonvenzionale, umoristicamente provocatorio, auto sorgivo in maniera inesauribile (dura 2 e 29 ma potrebbe durarne 6). Con al centro almeno un paio di piani di lettura immediati: la tensione dell’apparire sociale del singolo e le dinamiche classiste nella società (sul rapporto maschio femmina tante mirabili chicche, ma non è il centro del discorso). Diviso in tre parti/spazi Triangle of sadness necessita come di una rincorsa, che poi è il primo blocco del racconto. Ovvero la relazione (sentimentale?) tra due modelli: Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charibi Dean, morta a 32 anni lo scorso agosto per un malore improvviso tutt’oggi ancora senza risposta). Prima una rapida scorsa sull’impostura nella malia dell’immagine che comunica (lo sguardo serio alla Balenciaga e quello sorridente H&M dei modelli da selezionare) poi subito le scintille, le frizioni tra lui e lei, i belli, figacci e figaccione, al ristorante davanti ad un conto da pagare da non si sa bene chi. Parità di genere addio. Ma è solo un assaggio.
Non c’è mai un vero e proprio nucleo drammaturgico attorno al quale far gravitare il racconto, anzi la non linearità narrativa, il sobbalzo tra uno spazio e l’altro (tra una sequenza e l’altra), il perdere di vista ad esempio quelli che sembrano i due protagonisti in mezzo al caos di privazioni e violenze (qui c’è molto di un certo tardo pasolinismo alla Salò) fa di Triangle of sadness un film curiosamente sperimentale e allo stesso tempo opera totalmente sotto il controllo del suo creatore. Infine, in filigrana emerge traccia dopo traccia questa riproduzione continua di una scala sociale dove chi sta in alto si gonfia e pavoneggia, chi sta in basso tace e cova, chi sta in mezzo tenta l’imitazione goffa verso l’alto (Yaya e il suo ruolo di influencer, per dire). Un po’ come nello spirito latente di un film come Parasite (altra Palma d’Oro) l’impressione è che prima o poi la vendetta di classe, rispetto alle disparità socioeconomiche che affliggono con violenza l’evo contemporaneo, finirà per sfogarsi con impeto distruttivo e senza happy end. Ostlund del resto, è capace di fare proprio questo: alludere a epocali sconvolgimenti rimandandoli di continuo, stratificare un’attesa dilatata prima che il boato avvenga.
Per qualche vecchietto come chi scrive il tratteggio generale sa di deformazione grottesca come in qualche film demenziale anni novanta e di un’arguzia sottesa molto bunueliana anni settanta. Per chi invece è molto giovane il film di Ostlund è l’apoteosi (attenzione: splendidamente congegnata) di questa scrittura scenica (e messa in scena tout court) ad intermittenza, seguendo la frammentazione del pensiero contemporaneo abituato ai tempi rapidi del web e dei social (le citazioni storiche anticapitalistiche si scaricano dal display dello smartphone). Woody Harrelson è un comandante della nave marxista e anticonformista. Boccherini e Bach poi si mescolano ai Modjo e ai Refused in un soundtrack dal sapore sorrentiniano.