La studiosa americana Margaret C. Lee lo ha chiamato «new scramble for Africa», è la nuova spartizione del territorio africano che vede le ex potenze imperialiste sgomitare con quelle emergenti – in primis la Cina – per conservare spazi di influenza nel continente del futuro: giovane, ricco di materie prime, con il tasso di natalità più alto al mondo e una collocazione geografica senza eguali sullo scacchiere internazionale. Passaggio obbligato per i commerci marittimi tra Asia ed Europa, è nelle mire di molti paesi. Nel nuovo millennio, il «magnifique gâteau africain» di Leopoldo II del Belgio si presenta così: ferrovie cinesi accanto a cavalcavia brasiliani, utility a gestione filippina e terminal aeroportuali turchi. Succede in Ghana, ma in realtà è così un po’ in tutto il continente.
Tra il 2010 e il 2016, in Africa sono state aperte ben 320 ambasciate. Solo la Turchia – che si definisce un «paese afro-eurasiatico» – ne ha inaugurate 26. L’India ha in programma di aprirne altre 20 entro la fine del 2025. Dal 2019 a oggi, summit africani si sono tenuti in Francia, Gran Bretagna, Russia e Turchia.
Agli interessi economici si aggiungono considerazioni legate alla sicurezza. La guerra al terrorismo, sferrata dopo l’attacco alle Torri Gemelle, nelle ultime due decadi ha riacceso i riflettori sul continente: stabilizzare l’Africa, dove vive il 27% della popolazione musulmana mondiale, vuol dire stabilizzare interessi economici ad ampio raggio.
L’integrazione del Corno d’Africa nelle dinamiche indo-pacifiche e mediorientali ha creato un nuovo spazio geostrategico, caratterizzato da una crescente presenza di scarponi militari in territorio africano nonché dalla penetrazione di nuovi attori esterni.
È la fine decisiva di quell’ordine africano introdotto simbolicamente nel giugno 1990 con il celebre discorso rivolto da François Mitterrand ai capi di Stato africani: democrazia e buon governo, chiarì il presidente, avrebbero costituito le sole chiavi di accesso agli aiuti francesi e, più in generale, occidentali. Sappiamo che non è stato così. Come spiega nell’articolo Le potenze ‘tradizionali’ in Africa, tra passato e presente Maria Stella Rognoni, docente di Storia dell’Africa presso l’Università degli Studi di Firenze, le crisi in Somalia, Sierra Leone e poi Ruanda
“ridimensionarono la portata del cambiamento, mostrando come, dietro la nuova impalcatura retorica, l’atteggiamento delle potenze tradizionali e degli Stati Uniti non sia in realtà cambiato rispetto agli anni della guerra fredda e come l’afflato etico si possa presto accantonare pur di salvaguardare gli interessi di sempre, economici e strategici“.
L’arrivo di nuovi interlocutori con modelli economici e sistemi politici autoritari ha messo completamente in discussione i rapporti di forza, ridimensionando il potere negoziale delle vecchie potenze imperialiste. La Russia, erede dell’esperienza sovietica, è tornata a esercitare una presenza importante soprattutto dopo i fatti della Crimea. E l’invasione russa dell’Ucraina, nel febbraio 2022, sembra aver accelerato questo trend. Giappone e India hanno cercato di estendere una loro visione: Nuova Delhi giocando sul comune passato coloniale, Tokyo puntando sull’esperienza nei progetti infrastrutturali. La Corea del Sud, con il suo know-how tecnologico, vede un’opportunità nella digitalizzazione del continente, mentre Emirati Arabi Uniti e Turchia si fanno strada con imponenti basi militari in Libia e Somalia. Secondo un rapporto della World Bank, l’India dal 2005 è la prima destinazione delle esportazioni in Asia di Nigeria, Tanzania e Ghana. Il Pakistan lo è per il Kenya.
E poi naturalmente c’è la Cina, che nei cinque anni precedenti al COVID-19 ha investito in Africa il doppio rispetto a Stati Uniti e Francia, il paese – insieme alla Gran Bretagna – ad aver ottenuto la fetta più consistente nella spartizione africana. Lo scacchiere si affolla e le dinamiche del gioco cambiano.