Manifestare il dissenso è sempre legittimo, se non sacrosanto. Come si è scritto e detto in questi giorni, la libertà di poter metter su una protesta, soprattutto se pacifica e all’interno di un luogo come l’università, senza finire manganellati è un requisito minimo di democrazia.

Ciò premesso abbiamo anche il dovere di dirci, per amor di verità, che le motivazioni di partenza a sostegno della protesta del 25 ottobre alla Sapienza – io trovo – sono una tragica riedizione di quella sinistra perdente che ha appena regalato la vittoria all’avversario. Cos’altro ci vuole, dopo l’ecatombe elettorale, per ripensare la comoda narrazione lettiana del “ritorno del fascismo”, che se riproposta pure dai banchi dell’opposizione finirà per far evaporare definitivamente il Partito Democratico.

Ma facciamo un passo indietro: è martedì, davanti a una Facoltà di Scienze Politiche blindata va in scena la contestazione in risposta a un convegno autorizzato – sottolinea la rettrice tra le polemiche – sul “capitalismo buono”, con ospiti esponenti di Fratelli d’Italia e il giornalista Daniele Capezzone. Mentre l’evento si svolge regolarmente, un drappello di studenti al grido di “fuori i fascisti della Sapienza” finisce caricato dalla squadra antisommossa sotto lo sguardo incredulo dei presenti. Il bilancio è di diversi feriti e due fermi.

L’Università se ne lava le mani condannando ogni violenza e la Questura sostiene di aver agito a fronte di una minaccia all’ordine pubblico. Gli studenti, di tutt’altro avviso, rispondono con un’occupazione partecipatissima andata avanti fino alla mattina di sabato e la promessa di nuove mobilitazioni. C’è chi ha parlato di un tentativo di picchetto, chi di un presidio per appendere un semplice striscione sui cancelli, quel che è certo è il grave scontro che ne è derivato e una rabbia che ancora serpeggia.

I nemici più grandi sono dentro noi stessi, diceva Miguel de Cervantes. Non c’è da stupirsi che la destra faccia la destra. È ciò che ancora avviene a sinistra, piuttosto, che dovrebbe preoccupare dopo una simile batosta alle urne. Il disagio evidente non sarebbe, forse, più costruttivo se incanalato dalle parti del Pd o di quel che ne resta?

Vigilando su chi, fino a prova contraria, è responsabile ultimo di quest’esito elettorale perché si avvii verso un reale processo di rinnovamento interno, fintanto che ancora dispone di un qualche consenso non già emigrato verso i 5 Stelle di Giuseppe Conte.

Se poi il partito dell’establishment (un report del Sole24Ore ha certificato il successo di Letta nei comuni con reddito più alto, guarda caso) non dovesse dimostrarsi propenso a un’effettiva rifondazione – ed è cosa possibile – beh, che almeno lo si inchiodi alle sue responsabilità nei confronti di quel 19% che lo ha votato, aspettandosi un’opposizione decente e possibilmente coerente.

Perché è molto facile stracciarsi le vesti per le manganellate di oggi e fare spallucce su quelle di ieri, quando a Palazzo Chigi non c’era Giorgia Meloni e la ministra dell’interno si chiamava Luciana Lamorgese.

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