Finite le elezioni e assurta come ampiamente previsto Giorgia Meloni allo scranno di Primo Ministro, le forze del campo progressista affrontano la nuova fase di opposizione, ancora sostanzialmente per non dire profondamente, divise da visioni e prospettive politiche molto diverse. È stata questa la causa della sconfitta, non sarà semplice né a portata di mano l’inversione di tendenza verso una concertazione di iniziativa politica e parlamentare unitaria.
Eppure ci sono elementi fondamentali che dovrebbero spingere i due maggiori partiti dell’opposizione – Cinque stelle e Partito democratico – a deporre le armi e cominciare a lavorare per un’agenda comune. In primo luogo per il fatto che la vittoria elettorale della destra, è netta nelle percentuali e quindi nei seggi assegnati a causa di un’orripilante legge elettorale, ma non certamente nel consenso reale, dal momento che ha votato il 63,91% degli aventi diritto, la percentuale più bassa di sempre per elezioni politiche generali e comunque circa il 9% in meno rispetto alla precedente tornata.
In voti assoluti la coalizione di destra vincente ha raccolto 12.300.244 voti, pari al 43,79%. Il cosiddetto campo largo, composto Pd e coalizzati, Cinque stelle e Lista Calenda (Italia viva + azione), a prescindere dalle incompatibilità politiche ha ricevuto 13.858.694 pari al 49,35%. Se non avessero rinunciato preventivamente a qualsiasi alleanza, oggi staremmo parlando di un’altra storia.
Ovviamente tutti sappiamo perché si è giunti a quella situazione: le vicende relative la caduta del governo Draghi, ma anche quella precedente del governo Conte due, hanno lacerato la fragile alleanza, soprattutto hanno pesato i nodi irrisolti della stessa identità delle diverse componenti ed appartenenze tra e nei partiti.
E’ il dilemma attuale della sinistra e della democrazia italiana: abbiamo una coalizione di destra molto ben configurata e definita nei diversi assetti, pur se non priva di divisioni e interna competizione com’è naturale che sia, ed un campo cosiddetto progressista e di sinistra che più diviso non si può.
Se osserviamo i diversi raggruppamenti a sinistra, vediamo i Cinque stelle in fase di evoluzione, dopo lo “scampato pericolo” di un tracollo elettorale definitivo ampiamente previsto ed evitato essenzialmente per le scelte chiare e convincenti, almeno per una parte dell’elettorato, di Giuseppe Conte che, dopo la scissione con l’uscita di Luigi Di Maio e del suo folto gruppo di parlamentari, ha conseguito un’agibilità e una forza che certamente prima non aveva. Un movimento-partito, molto cambiato in pochi anni che ha conservato un radicamento elettorale soprattutto al Sud, che si candida a rappresentare soprattutto ma ovviamente non solo, gli interessi della parte più svantaggiata della popolazione, tendendo ad assumere una connotazione più marcatamente di sinistra, non suffragata ancora però da una definizione politica e programmatica compiuta e coerente.
Il Partito democratico, da tempo in crisi di identità, dopo che le due ultime tornate elettorali nel 2018 e quest’ultima, hanno definitivamente, almeno per ora, sepolto l’ambizione maggioritaria per cui esso stesso era nato.
Gli sviluppi congressuali ci diranno se il Pd riuscirà a risolvere la sua crisi esistenziale, ad assumere un connotato e soprattutto un assetto complessivo che lo faccia uscire dall’attuale situazione, non sembra in ogni caso che questa scelta potrà condurre molto lontano dalla vocazione marcatamente centrista che ne è stato il tratto distintivo finora, a meno che non avvenga un rivolgimento radicale che non si può allo stato credibilmente ipotizzare.
A sinistra del Pd ed in parte anche nel Pd, ci sono raggruppamenti di sinistra minori come Sinistra Italiana, Articolo uno e i Verdi che insieme potrebbero svolgere una funzione di stimolo per nuove aggregazioni, ma è lecito dubitare che ne abbiano la forza, non tanto per mancanza di volontà, piuttosto per le caratteristiche di gruppi legati essenzialmente a leadership personali con poche capacità espansive come il tempo ha evidenziato.
A destra del Pd ci sono i suoi potenziali competitors nell’area moderato-liberale, Matteo Renzi e Carlo Calenda, che pur se con un bottino elettorale molto più modesto delle attese (pretese) e tra di loro in perenne conflitto, potrebbero alla fine approfittare del perdurare della stagnazione e indeterminatezza del partito di provenienza, cui hanno già sottratto un bel po’ di voti, per ambire ad un’operazione di “cannibalismo politico” più consistente.
Sul tema di una ricostruzione seria della sinistra si è cimentato Stefano Fassina, economista e politico ex deputato, con un interessante e impegnativo libro Il mestiere della sinistra, nel ritorno della politica [edizioni Neri Pozza], che affronta, come si dice in gergo, i fondamentali di un’analisi del contesto socio-economico e politico, nazionale ed europeo, per tracciare una direzione di ricostruzione di un pensiero di sinistra, socialista e democratico, nella difficile e drammatica attualità degli sconvolgimenti che la guerra in Ucraina sta determinando a livello globale e dei singoli paesi.
Un libro importante che indaga le conseguenze di ciò che l’Autore definisce fine della globalizzazione e ritorno ad un protagonismo (certo tutt’altro o non sempre positivo) degli stati nazione. Una proposta ben articolata, ricca di spunti che offre un utile contributo a quanti vogliano approfondire questi temi e propedeutico ad un dibattito politico di elevato livello che in verità stenta a decollare, salvo poche lodevoli eccezioni.
A Bologna il prossimo giovedì 3 novembre, alle ore 18.00, nella sala auditorium Biagi in Sala Borsa, discuteranno con Fassina, il prof. Carlo Galli, la vicesindaca Emily Clancy, Pierluigi Bersani, in un incontro promosso dall’associazione il manifesto in rete, con la partecipazione ed il saluto del sindaco Matteo Lepore. Un incontro pubblico da non perdere, che si potrà seguire anche in diretta sulla pagina facebook dell’associazione https://www.facebook.com/IlManifestoBologna/