Dal baratro della terra agli abissi marini: la quasi disperata ricerca delle materie prime necessarie alla produzione di batterie destinate ai veicoli elettrici si concentra sugli oceani. In quello Pacifico, al largo delle coste statunitensi e a nord dell’Equatore in particolare, ma non solo. A circa 3.000 metri di profondità, nella zona indicata come Clarion-Clipperton, ci sarebbero 274 milioni di tonnellate di nichel concentrate in 1,7 milioni di miglia marine quadrate.
Secondo le stime del Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS) sott’acqua le riserve sarebbero praticamente il triplo di quelle conosciute sulla terraferma, ipotizzate attorno ai 95 milioni di tonnellate. Per quanto riguarda il cobalto il mare ne nasconderebbe almeno 44 milioni di tonnellate, sei volte quelle calcolate sulla terra, che ammontano a 7,5 milioni.
Il fatto che i cosiddetti “noduli polimetallici” – pietre delle dimensioni medie di una patata – si trovino in acque “amiche” assume una grande per il mondo occidentale, perché potrebbe consentire di alleggerire la dipendenza dalla Cina che controlla gran parte dell’estrazione convenzionale. Anche dal punto di vista economico l’approvvigionamento dai fondali marini sembrerebbe risultare competitivo perché possono venire impiegati buona parte dei macchinari in uso per le trivellazioni off-shore e perché la logistica del trasporto rischia di essere perfino più semplice.
Resta invece da accertare quanto la pratica dell’aspirazione dei fondali sia sostenibile dal punto di vista ambientale. Gruppi come Bmw, Volkswagen e Volvo e società del calibro di Google e Samsung hanno già sottoscritto una moratoria impegnandosi a non rifornirsi di minerali provenienti dai fondali oceanici. Gli oppositori alla pratica, almeno fino a quando non ne verranno appurati gli effetti collaterali, sono ancora molti. Fra questi ci sono Greenpeace, ma anche i i governi di arcipelaghi come le Fiji, Samoa e Vanuatu che già lamentano i rischi legati all’innalzamento del livello dei mari. Sia il WWF sia il Cile hanno sollecitato la sospensione delle attività di prospezione per valutare l’impatto di quelle avviate finora. Dal 2001 ad oggi sono state rilasciate 19 concessioni. Al contrario, stati come le isole Cook e Nauru sono favorevoli alle operazioni.
Rastrellare e aspirare miglia e miglia di fondali marini è un’alternativa all’estrazione di minerali dal sottosuolo terrestre, dove vengono impiegati lavoratori, anche minorenni, spesso in violazione dei più semplici diritti umani e sociali. La domanda è sempre la stessa e riguarda l’eventuale insostenibilità dell’opzione sostenibile per la mobilità. Le società minerarie stanno già sviluppando tecnologie specifiche per aspirare i fondali marini (si parla di dispositivi delle dimensioni equivalenti a quelli di un trattore e di robot autonomi) alla ricerca dei preziosi “noduli polimetallici”.
La filiale di Nauru della canadese Metals Co. di Vancouver ha annunciato di voler presentare i risultati dei test di raccolta effettuati proprio nei fondali della zona di Clarion-Clipperton da parte della capofila assieme alla società specializzata elvetica Allseas impiegando grandi collettori collegati a un tubo lungo oltre 3 chilometri per trasferire i noduli sulla nave. Il problema sono la tecnologia di aspirazione, la cui potenza può impattare sull’ecosistema marino e sul suo equilibrio, e lo scarico degli “scarti”. Se nelle reti dei pescatori restano impigliate specie indesiderate o protette c’è da chiedersi cosa possa venire risucchiato dai macchinari. Anche il prestigioso Massachusetts Institute of Technology di Boston, il MIT, è impegnato nelle analisi delle ripercussioni delle attività minerarie marine. Non resta che attendere i risultati.