di Giuseppe Ungherese*

L’inquinamento da plastica e l’emergenza climatica sono due crisi ambientali più legate di quanto si pensi. Se la plastica – che deriva in gran parte da petrolio e gas fossile, il cui sfruttamento è all’origine dell’emergenza climatica – fosse una nazione, sarebbe il quinto stato per emissioni di gas serra.

Per queste ragioni, nei giorni scorsi l’annuncio dell’accordo di sponsorizzazione tra Coca Cola e la prossima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP27) ha lasciato molte persone perplesse ed è stato indicato come un eclatante caso di greenwashing. La Coca Cola si distingue infatti per il massiccio impiego di plastica monouso nel mondo (pari a circa 120 miliardi di bottiglie l’anno) e, nonostante queste premesse, è partner del prossimo evento che dovrebbe trovare soluzioni concrete per affrontare e mitigare l’emergenza climatica in atto.

Ma i casi di sponsorizzazioni controverse sono molteplici e interessano molto spesso anche gli eventi sportivi, tant’è vero che ormai si parla di sportwashing. Un esempio di pochi mesi fa, passato abbastanza inosservato, riguarda Pepsi e la Uefa. Quest’ultima ad inizio settembre ha diffuso le linee guida per l’economia circolare, parte di una strategia più ampia e a lungo termine nota come “Football Sustainability Strategy 2030”, ma per redigerle si è affidata proprio alla collaborazione di Pepsi.

Come può l’organizzatore di una delle più importanti manifestazioni europee di calcio come la Champions League affidarsi a una multinazionale come Pepsi per definire i suoi obiettivi di sostenibilità? È come affidare le pecore a un lupo.

Pepsi, infatti, oltre a non aver mantenuto per anni le promesse fatte per affrontare l’inquinamento da plastica, compare da oltre quattro anni, ininterrottamente, sul podio della speciale classifica della coalizione Break Free From Plastic, che indica a quali marchi sono riconducibili i rifiuti in plastica dispersi nell’ambiente in tutto il mondo.

Secondo gli ultimi dati pubblici resi disponibili dalla fondazione Ellen MacArthur, Pepsi ha utilizzato nel 2020 oltre 2 milioni e 300 mila tonnellate di plastica, poco meno rispetto alla prima della classe (Coca Cola, con circa 3 milioni di tonnellate), e solo il 5% di questo era rappresentato da materiale riciclato. Ma soprattutto: Pepsi in che quantità fa ricorso a imballaggi riutilizzabili o ricaricabili, considerati nella stragrande maggioranza dei casi la soluzione più sostenibile? Zero. Sì, un enorme 0% del portafoglio degli imballaggi messi in commercio.

C’è però un piccolo barlume di speranza: a marzo, l’azionista senza scopo di lucro AsYouSow ha annunciato che Pepsi si è impegnata a fissare un obiettivo per il ricorso a contenitori ricaricabili e riutilizzabili entro la fine del 2022. Forse questo voleva far trapelare la vicepresidente di Pepsi Europe e capo della sostenibilità quando, in occasione della diffusione delle suddette linee guida per l’economia circolare dell’Uefa, ha dichiarato la necessità di: “Rimodellare l’economia circolare in modo da ridurre al minimo gli sprechi e promuovere soluzioni sostenibili per il nostro ambiente … per trasformare i sistemi e creare nuove opportunità che creino un futuro più sostenibile”.

Forse sarà la volta buona in cui l’annuncio non sarà solo un insieme di tante belle promesse mascherate da una patina verde ma il preludio a un impegno serio ed efficace per contrastare l’abuso di plastica e l’inquinamento che ne deriva? Se così fosse, saremo i primi ad esserne felici, al contrario dovremo catalogare la collaborazione con la Uefa come l’ennesimo caso di greenwashing.

* responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia

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