Se pensate che Vladimir Putin sia il pericolo pubblico “numero 1” per la democrazia liberale, forse dovreste seguire anche le gesta di Xi Jinping.
Vladimir pensava che fossimo, noi “occidentali”, ormai già abbastanza rammolliti da non essere più in grado di reagire a nulla. Che fossimo cioè come la rana che lentamente bolle in pentola senza avere il riflesso di saltar fuori, e che la nostra pentola democratica ribollisse ormai di un misto di populismo e consumismo che ci avrebbe lasciato inerti sulle impotenti a contemplare dal divano l’annessione lampo dell’Ucraina, magari giusto un po’ attoniti per l’affronto subìto, ma paralizzati dal rischio di trovarci i termosifoni freddi.
La storia per ora gli sta dando torto. Proprio per questo è bene badare anche al suo alleato, meno sguaiato ma più potente. Xi non cercherà lo scontro frontale, almeno fino a quando non sarà certo di vincerlo, magari proprio contro Taiwan. Nel frattempo ha rinsaldato un potere che coniuga le armi tradizionali dell’autoritarismo agli strumenti più innovativi della tecnologia di frontiera: il bastone di un esercito che cresce di potenza e la carota degli investimenti economici e dell’attrazione culturale e scientifica.
Xi non vuole far saltare per aria le istituzioni internazionali a colpi di crimini di guerra, ma le vuole usare per nutrire un nazionalismo diplomaticamente aggressivo. Fa ampio ricorso alle più gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani, ma lasciando meno tracce possibile, come per i milioni di Uiguri internati o per il genocidio, culturale e non, del popolo tibetano, o per la soppressione silenziosa del dissenso interno. Il clamore dello scontro è accettato solo quando inevitabile alla tenuta del regime, come contro le proteste a Hong Kong.
Il Congresso del Partito comunista cinese appena concluso ha suggellato la strategia della linea dura e dell’accentramento, demolendo il limite dei due mandati per il capo supremo, dissolvendo con la forza ogni possibilità di contrasti interni al partito, mostrando i muscoli al mondo, ma con la mano già aperta per continuare a fare affari con chi vorrà.
Il gioco di Xi Jinping potrebbe non funzionare. Proseguendo a testa bassa nella politica del coprifuoco contro il Covid, Xi Jinping ha rischiato di far collassare l’economia, e persino la rabbia popolare era cresciuta fino ai limiti di guardia. Il Premio Nobel Amartya Sen in altri tempi spiegò come, di fronte ad esempio a una carestia, la democrazia contenga in sé la possibilità di produrre anticorpi, di autocorreggersi in base agli errori commessi, mentre i dittatori sono costretti a difendere i propri errori con le unghie e con i denti per paura che ogni più piccola critica possa aprire al baratro della contestazione.
In politica internazionale, cercare di tenere i piedi in troppe scarpe, professando internazionalismo per affermare nazionalismo, rischia di far fare molte pentole senza il coperchio. Ad esempio, l’ambiguità complice con la guerra di aggressione di Putin potrebbe rivelarsi un errore grave ora che l’esercito russo sta perdendo terreno. Persino la scelta di puntare tutto sull’innovazione tecnologica potrebbe dissipare una quantità eccessiva di risorse a causa degli inevitabili errori che ogni dirigismo statalista produce. La vera libertà, che include quella economica e di impresa, fornisce correttivi di mercato più reattivi di quanto non lo siano le previsioni di qualche superburocrate.
Pur tenendo conto delle tante fragilità del regime di Xi Jinping, sarebbe ingenuo aspettarsi un’implosione sul modello dell’Unione sovietica nel 1989. Tra le tante differenze, ve n’è una fondamentale insita proprio nel tipo di tecnologie sulle quali la Cina sta puntando. La rivoluzione digitale si nutre di dati, che sono alla base di tutte le tecnologie ricomprese sotto la definizione un po’ vaga di “intelligenza artificiale”. Per produrre e trattare un’enorme massa di dati, l’accentramento ha dei vantaggi, così come l’assenza di diritti fondamentali come quello alla riservatezza dei dati personali. Un regime tecnocratico può quindi restare molto efficace nel conoscere e comprendere i bisogni della gente pur senza concedere spazi di libertà.
La differenza con l’Unione sovietica di ieri, e anche con la Russia di oggi, si può vedere proprio dal grado di soddisfazione del cinese medio, per il quale lo scambio tra libertà e benessere è generalmente ritenuto soddisfacente (non sono ovviamente soddisfatte le minoranze e le persone direttamente perseguitate, e non sappiamo abbastanza di cosa pensino davvero i cinesi, ma i segnali di una tenuta di fondo della popolarità del regime tra la popolazione sembrano chiari). L’enorme quantità di danaro investita dallo Stato cinese per spingere l’innovazione tecnologica compensa almeno in parte i danni dell’inefficienza dirigista.
Come ci dovremmo comportare “noi occidentali” non è semplice stabilirlo. Impossibile ormai illudersi di isolare politicamente o economicamente la Cina. Demenziale fingere che sia un Paese come un altro, al quale affidare con tranquillità infrastrutture necessarie alla sicurezza nazionale e rispetto al quale chiudere un occhio per la violazione dei diritti umani pur di far fiorire ogni genere di affare.
Il punto sul quale andrebbe concentrata la sfida è proprio quello sul quale il regime di Xi sta vincendo, cioè quello tecnologico. E’ proprio da Taiwan e dalla risposta che l’isola ha dato alla pandemia che possiamo imparare molto: una combinazione di tecnologia e democrazia, iper-digitalizzazione e società aperta che fa sperare sia ancora possibile investire in un modello democratico che non guardi al passato ma al futuro.
Applicare il modello Taiwan in Europa significherebbe investire ingenti risorse nello sviluppo tecnologico al servizio della partecipazione democratica. Nell’Italia del divieto di sottoscrizione delle liste elettorali con firma digitale mi sa che ancora non ci siamo proprio.
Continuiamo dunque a occuparci di Vladimir, di una pace con giustizia, ma senza perdere di vista Xi. Se Taiwan diventasse la prossima Ucraina, non sarebbe la distanza a rendere meno importante il successo della loro resistenza. Per il nostro bene.