Nuove armi, addestramento e soprattutto droni. È questa la merce di scambio che ha permesso ad Ankara di compiere un nuovo importante passo verso il rafforzamento della propria presenza in Libia, paese da tempo al centro delle politiche espansionistiche turche nell’area mediterranea. Un’espansione che avviene non solo a discapito degli interessi di altri Paesi dell’area, primo fra tutti l’Italia, ma anche in violazione dell’embargo sulla fornitura di armi imposto dalle Nazioni Unite e sul cui rispetto vigila la missione navale europea Irini, incapace di mettere fine ai flussi di armi che collegano Libia e Turchia.
L’accordo tra Ankara e Tripoli per la vendita di droni è stato siglato il 25 ottobre a Istanbul tra il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar e il premier libico ad interim Abdul Hamid Dbeibah, giunto nel Paese anatolico per discutere con la controparte turca degli ultimi sviluppi in Libia. Nei giorni precedenti all’incontro, altri due importanti attori libici, Aguila Saleh e Khaled al-Mishri, hanno infatti annunciano una riconciliazione tra il Parlamento di Tobruk e l’Alto Consiglio di Tripoli e la ripresa del dialogo per giungere presto a nuove elezioni. L’alleanza tra Saleh e al-Mishri è stata accolta negativamente da Dbeibah, che non a caso è tornato a chiedere aiuto al suo principale sostenitore: la Turchia.
Per il premier ad interim l’accordo tra i rappresentanti del Parlamento e dell’Alto consiglio rappresenta una minaccia alla tenuta del suo potere. Entrambi ritengono che il mandato di Dbeibah sia scaduto a dicembre del 2021, secondo quanto stabilito anche delle Nazioni Unite, e che sia pertanto necessario eleggere un nuovo primo ministro. Tale scenario però mette a repentaglio anche i successi ottenuti fino ad oggi dalla Turchia che ha saputo sfruttare la debolezza del Governo di unità nazionale per mettere le mani sulle risorse energetiche della Libia. A ottobre, infatti, Ankara e Tripoli hanno firmato un accordo per lo sfruttamento e la ricerca di gas e petrolio nelle acque che la Libia rivendica come proprie dal 2019 in cambio di un rafforzamento della cooperazione militare tra i due Paesi.
È da questa prima intesa che prende il via l’accordo firmato a fine ottobre a Istanbul e che dovrebbe prevedere anche la vendita al premier libico dei droni di produzione turca, diventati il simbolo del successo non solo industriale ma anche diplomatico della Turchia. Questo acquisto, se confermato, segnerebbe un punto di svolta nel rafforzamento delle capacità militari delle forze fedeli a Dbeibah. I droni turchi in realtà sono stati già impiegati in Libia in passato per evitare che le milizie del generale Khalifa Haftar prendessero Tripoli, ma il loro controllo era rimasto nelle mani dei soldati di Ankara. In caso di vendita, invece, i velivoli sarebbero pilotati direttamente dalle milizie del premier libico che potrebbero agire senza coordinarsi con la controparte turca.
La fornitura di droni rischia di avere degli effetti destabilizzanti sui già precari equilibri del Paese nordafricano, ma soprattutto avverrebbe in piena violazione dell’embargo imposto dalle Nazioni Unite sulle armi pesanti. Una misura scarsamente rispettata da diversi Stati, come evidenziato a maggio di quest’anno dal rapporto annuale degli esperti Onu che la Turchia è stata più volte accusata di aver ignorato, avendo continuato a vendere armi alle fazioni attive in Libia. Emblematico a questo proposito è stato il blitz effettuato dalla Digos nel porto di Genova sul cargo turco Bana, all’interno del quale furono rinvenuti carri armati, cannoni e fucili.
Il rispetto dell’embargo Onu dovrebbe essere garantito dalla missione navale europea Irini, nata nel 2020 e guidata dall’ammiraglio italiano Stefano Turchetto, ma Ankara continua ad agire indisturbata nel Mediterraneo. Nel solo 2022 la Turchia ha negato per ben 3 volte il consenso per ispezionare le navi battenti bandiera turca fermate nel Mediterraneo centrale e sospettate di trasportare armi dirette in Libia, rischiando di dar vita anche a un incidente diplomatico. Per tutta risposta l’Ue ha congelato i beni della compagnia turca Avrasya Shipping e ha imposto più volte sanzioni contro persone fisiche coinvolte nel traffico di materiale militare, ma non è riuscita a bloccare i flussi di armi. La fornitura di droni, quindi, non è che l’ennesima violazione di un embargo che per la Turchia sembra non avere alcun valore e che le autorità competenti non sono in grado di far rispettare.