Uno dei miti della storia dell’istruzione italiana più duri a morire è quello secondo il quale Gentile, con la sua omonima riforma, avrebbe “inventato” il liceo classico e che, dunque, la scuola che per molti decenni ha rappresentato le fondamenta culturali della Repubblica sia, nei fatti, un’eredità del regime fascista. In un recente (bellissimo) volume edito da Mondadori, Federico Condello – dell’Università di Bologna – ha dimostrato con dovizia di particolari e accuratezza storica come l’invenzione da attribuire al filosofo idealista sia piuttosto quella del liceo scientifico. Le radici del classico sono da ricercarsi negli anni della legge Casati, come rivela l’onomastica dei licei classici italiani così poco incline a commemorare papi e santi, e invece celebrativa dei grandi del Risorgimento e dell’antichità classica.
L’invenzione del liceo scientifico, che negli anni si è rivelato una scuola eccellente, non venne portata avanti da Gentile per creare una concorrenza o un’offerta complementare rispetto a quella del liceo classico. L’idea non era quella di creare degli scienziati da affiancare ai classicisti. Al contrario, l’intento era – per così dire – “protezionistico”. L’obiettivo era cioè che il classico rimanesse appannaggio di coloro per i quali il classico era stato creato, cioè gli aristoi (per rimanere in tema). E qui la storia si riallaccia al presente e al gran parlare che ultimamente si fa di merito: parola che, se avulsa da uno specifico contesto storico e sociale, significa tutto e niente.
Mi si perdoni, allora, un altro riferimento storico, ovvero una citazione da Gramsci (che anche Condello, a ragione, ricorda) secondo il quale “il latino non si impara, ma si studia”. Oltre a mettere una pietra tombale sulla sterile questione dell’utilità del classico e delle lingue cosiddette morte, questo lapidario aforisma dovrebbe fungere da bussola per non farci mai perdere d’occhio la funzione di giustizia sociale che l’istruzione pubblica riveste. Tale funzione consiste nel rendere accessibile a tutti quello che in passato era privilegio e appannaggio di pochi. “Il latino si studia” indica precisamente questa possibilità di penetrare un intero codice culturale e una complessa, plurisecolare tradizione di saperi (infatti “il latino non si impara” perché non è riducibile a una semplice “competenza”, parola cara ai burocrati ministeriali). Quello che vale per il latino vale per tutta l’istruzione che non sia mero avviamento al lavoro.
Il merito non deve diventare un ulteriore incentivo alla canalizzazione verso mestieri specializzanti di chi venga valutato non meritevole. Troppo spesso il demerito coincide con una certa provenienza sociale e non è che il risultato della mancanza di mezzi e di cure. Troppo spesso questo svantaggio si trasforma in un precoce scivolamento verso il mondo del lavoro. Imparare un mestiere è una scelta assolutamente rispettabile; ma questa scelta deve essere compiuta in coscienza, comprendendo a cosa si rinuncia e perché. Tale rinuncia non riguarda solo il latino, ma tutto ciò che apparentemente “non serve” e che viene messo da parte in favore di scelte più pratiche e di immediata applicabilità. Esattamente l’intento di Giovanni Gentile con la creazione dello scientifico, il cui antico ruolo è stato oggi sostituito dalla moltitudine di istituti che, non a caso, si chiamano tutti licei (e anche su questo Gentile farebbe di sì col capo, in segno di soddisfazione).
Se solo i figli dei ricchi (di denaro e/o di sapere) sono i destinatari di quelle cure che li rendono “meritevoli”, a cosa vale l’articolo 34 della Costituzione, il quale sancisce l’obbligatorietà della scuola, ma anche i diritti precisamente dei “capaci e meritevoli” per i quali si auspica la rimozione di eventuali ostacoli? Invece di utilizzare rozzamente la parola merito, sarebbe bene interrogarsi sui molti e spesso indistricabili legami che esistono tra merito e privilegio da una parte, e mancanza di opportunità e risultati scolastici non promettenti dall’altra. Altrimenti la tentazione è quella di credere che la maggior parte dei capaci nasca fra i ricchi, o come diceva Don Milani, il quale immolò la vita alla giustizia sociale e all’istruzione, che tutti i somari nascano nelle case dei poveri.