Le politiche in Danimarca si sono concluse con la vittoria, di misura, della coalizione progressista guidata dal Partito Socialdemocratico della premier Mette Frederiksen. La sinistra si è aggiudicata 90 seggi sui 179 del Folketing, un dato interessante visto lo stato di crisi in cui versano i partiti progressisti in Europa. Il Partito Socialdemocratico, come ricordato dalla Bbc, ha ottenuto il 27,5 per cento dei voti espressi, il miglior risultato degli ultimi vent’anni e le dimissioni rassegnate dalla Frederiksen, per aprire alla formazione di un governo più ampio, non cancellano questo risultato. Un altro dato rilevante emerso dalle urne, se riferito al contesto europeo, è il risultato ottenuto dalla destra radicale, presentatasi con tre partiti diversi, che non hanno superato il 15 per cento dei voti e risultano marginali nello scacchiere politico.
La Danimarca è stata governata dai Socialdemocratici sin dal 2019 e, mentre molti altri partiti europei di sinistra hanno subito forti cali di consensi, non è avvenuto lo stesso a Copenaghen. Una conservazione della popolarità legata in gran parte all’attenzione per le politiche sociali. Il welfare è uno dei pilastri della Danimarca e la crisi scatenata dal Covid non lo ha scalfito. Nel giugno del 2020 il Ministro delle Finanze Nicolai Wammen aveva annunciato un pacchetto di aiuti da 9 miliardi di dollari, pari a 1570 dollari per cittadino danese, per stimolare i consumi. Nel corso del suo mandato il gabinetto Frederiksen ha inoltre reintrodotto la formula delle negoziazioni tripartite, con sindacati e imprenditori, per sostenere processi decisionali condivisi e che tutelassero i lavoratori, come l’introduzione di una serie di interventi compensativi da utilizzare nei momenti di crisi.
Negli ultimi anni i Socialdemocratici hanno sterzato sulle politiche migratorie in chiave ancor più restrittiva, avvicinando il proprio modello a quello australiano. Una decisione che ha messo d’accordo tanto i Socialdemocratici quanto il centrodestra di Venstre, l’altro grande partito tradizionalmente al governo. Si tratta di un trend, come ricordato dall’ex attivista politico socialista Ozlem Cekic su Foreign Policy, in atto da più di vent’anni ed iniziato col Partito del Popolo Danese, un partito anti immigrazione di estrema destra, che nel 2001 fornì i voti necessari alla formazione di un governo. Le idee del Partito del Popolo Danese hanno successivamente contaminato quelle dei partiti più grandi, inclusi i Socialdemocratici, che hanno agito con fermezza su cittadinanza e campi profughi.
Il governo socialdemocratico ha poi introdotto, dopo un accordo politico raggiunto con tre partiti di sinistra nel 2019, una serie di ambiziosi impegni climatici. Tra questi la riduzione delle emissioni del 70 per cento, rispetto al livello del 1990, entro il 2030. L’alleanza di sinistra aveva riconosciuto che si trattava “di un punto di arrivo molto ambizioso” ma aveva sottolineato “come il mondo e la Danimarca si trovino nel mezzo di una crisi climatica” e che limitare le temperature globali “ non è solamente la cosa giusta da fare ma anche la più corretta da un punto di vista economico”. Il 79 per cento dei danesi, secondo un sondaggio realizzato nel 2021, ritiene che il cambiamento climatico e le sue conseguenze siano la sfida più importante che il mondo globale dovrà affrontare. Una sfida ritenuta anche in Europa tra le più preoccupanti.