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Algeria, 1994 racconta il decennio nero della guerra civile

di Federica Pistono*

Quando si parla di “decennio nero” dell’Algeria ci si riferisce agli anni Novanta, attraversati da una sanguinosa guerra civile, la cui pesante eredità è riscontrabile ancora oggi nella vita del paese: un lungo conflitto iniziato nel 1992 – data del colpo di Stato militare – e conclusosi nel 1999, anno dell’elezione del presidente Abdelaziz Bouteflika, sebbene gli episodi di violenza si siano protratti anche negli anni successivi.

Se la guerra d’Algeria comincia ad essere abbondantemente raccontata dalla letteratura, la guerra civile degli anni Novanta sembra forse ancora troppo vicina per essere oggetto di narrativa. Grande interesse suscita, pertanto, il romanzo 1994, dello scrittore e giornalista algerino Adlène Meddi (hopefulmonster, 2021, trad. E. Gut). L’opera narra infatti la lunga notte dell’Algeria degli anni Novanta, lo scontro armato, cruento e spietato, che ha visto schierati, su un fronte, gli apparati dello Stato, e, sull’altro, gli islamisti algerini.

1994

Il 1994, che dà il titolo al libro, è l’anno centrale del conflitto, l’anno in cui l’autore, allora 19enne, prende coscienza della tragedia che sta scuotendo il paese. È un anno che ha una collocazione precisa nella memoria collettiva, perché segna l’inizio degli attentati contro la popolazione civile da parte del terrorismo, l’aumento esponenziale delle aggressioni nei confronti di intellettuali, giornalisti, artisti, persino di religiosi – non solo cristiani, ma anche musulmani, fra i quali molti imam contrari all’integralismo. Una lotta lacerante, pagata con la vita di almeno 150mila persone, secondo stime non ufficiali.

L’opera si presenta come un thriller, un poliziesco scritto da uno dei più noti autori algerini di polar in lingua francese, ma in realtà si colloca alla confluenza di più generi, e la trama tinta di giallo risulta funzionale a un’analisi della società e a un’indagine approfondita dell’animo umano. L’intento dello scrittore è infatti quello di squarciare il velo di silenzio caduto sul “decennio nero” e di raccontare una generazione, quella che nel 1994 aveva circa vent’anni ed è stata travolta dalla violenza quotidiana, stretta tra la ferocia delle organizzazioni jihadiste e la brutalità della repressione poliziesca. Tra le forze in campo, i giovani protagonisti cercano di ritagliarsi il proprio ruolo e di affrancarsi dal peso del mito dei padri, gli eroi che hanno sconfitto i francesi e portato il paese all’indipendenza.

Il romanzo è ambientato a El-Harrach, un sobborgo di Algeri, da dove un gruppo di quattro ragazzi, amici fin dall’infanzia, segue la guerra crudele tra militari e islamisti. La morte potrebbe arrivare da qualunque parte, in qualsiasi momento, presentarsi con il volto di un cugino, di un poliziotto, ma anche di un semplice conoscente. L’esercito e gli islamisti insanguinano le strade. Basta una telefonata anonima, uno sguardo di traverso o un gesto maldestro per finire nel mirino di un mahchoucha, quel fucile a canne mozze la cui sola vista semina terrore.

I quattro amici, studenti liceali, s’interrogano su quale sia il loro dovere, in quella situazione. In un tardo pomeriggio, all’ombra di pini marittimi ed eucalipti, su una gradinata di pietra spazzata dal vento di mare, si riuniscono intorno a una bottiglia di vino rosso che sorseggiano in tazze da tè. Si guardano e decidono di impegnarsi nella lotta armata clandestina contro i terroristi, sull’esempio dei genitori che, 35 anni prima, avevano impugnato le armi contro i francesi. S’impongono di non lasciare tracce scritte, in modo che nulla possa permettere ai potenti servizi segreti di risalire a loro. Il problema è che i quattro studenti non sono assassini e, quando cominciano a spargere sangue, il loro equilibrio si spezza.

Inevitabile la citazione del romanziere spagnolo Manuel Vázquez Montalbán, per il quale la guerra civile spagnola non lasciò alla popolazione che tre scelte: l’esilio, la morte o la follia. Secondo l’autore, i protagonisti di 1994 vanno incontro a un destino del tutto simile: uno di loro finirà in manicomio, un altro andrà in esilio a Marsiglia.

La violenza trasforma i ragazzi in cannibali, fratelli che divorano fratelli, com’era già accaduto ai loro padri durante la resistenza ai francesi, quando gli amici più cari erano diventati nemici acerrimi, per poi pagare amaramente la loro storia attraverso il dolore dei propri figli. Tra le righe può dunque leggersi un confronto continuo tre le diverse generazioni che hanno composto l’Algeria contemporanea, quella dei padri e quella dei figli, accomunate da uno stesso modo di costruire la propria identità sul conflitto, sulla sconfitta e sull’annientamento dell’altro. Una lettura complessa, impegnativa, a tratti commovente.

* Dottore di Ricerca in Letteratura araba, traduttrice, arabista, docente, si occupa di narrativa araba contemporanea e di traduzione in italiano di letteratura araba