Cinema

Amsterdam, il capolavoro più intimo, sognante e sincero di David O. Russell

Delineato su un triangolo sentimentale/amicale alla Jules e Jim (o Band a part) Amsterdam ha come protagonisti due soldati americani, Burt (Christian Bale) e Harold (John David Washington), reduci della prima guerra mondiale e Valerie, una crocerossina (Margot Robbie). Nel cast Robert De Niro

di Davide Turrini

David O. Russell è l’ultimo possibile cineasta/autore idealista rimasto ad Hollywood. E Amsterdam è il suo capolavoro più intimo, sognante e sincero. Tutto oramai passa in sordina da quando è passato il rullo Covid, soprattutto per la categoria “grande produzione da premio”. Del Toro, Spielberg, Scorsese o l’ultimo George Miller (nemmeno 20 milioni di incassi su 60 di budget) non trainano più spettatori in sala. Idem per Amsterdam di Russell. E allora l’eccentricità formale e narrativa che fino e non molto tempo fa esprimeva originalità creativa diventa “caos” o “guazzabuglio”. Non vogliamo qui aprire una questione ampia sulla definizione odierna di “classico” nel cinema contemporaneo, ma questo film di Russell, molto semplicemente, come vecchia tradizione vuole, è un (bel) classico fino al midollo.

Delineato su un triangolo sentimentale/amicale alla Jules e Jim (o Band a part) Amsterdam ha come protagonisti due soldati americani, Burt (Christian Bale) e Harold (John David Washington), reduci della prima guerra mondiale e Valerie, una crocerossina (Margot Robbie), che li ha curati tra le schegge del fronte di guerra in Belgio. Un groviglio indissolubile di un sentimento di fratellanza e amore che si mescola ad una grottesca spy story complottista che mina le basi democratiche della nazione. Come sempre lo sguardo fremente, il punto di vista fluttuante di Russell (anche sceneggiatore) si concretizza tra fluidi e concitati movimenti di macchina (Emmanuel Lubezki, sodale di Malick e Inarritu, alla fotografia), angolazioni inattese e distanze accorciate della cinecamera rispetto ai protagonisti inquadrati, e soprattutto un tono del discorso demodé, una stravagante impostazione nella recitazione e una trama sfuggevole e intricata tra noir chandleriano e posdtmodernismo pynchoniano. Ed è qui che Russell marca ancora una volta il suo territorio creativo, mettendo la firma al suo racconto di onesti e savi svitati.

La storia prende il via nel 1933 a New York dove Burt, occhio di vetro, cicatrici e busto per reggere il tronco ferito in guerra, lavora come medico privato provando intrugli chimici farmacologici su di sé e facendone dipendere, con bonaria vicinanza morale e fisica, i suoi pazienti. Un medico borderline, insomma, cacciato dalla casa della moglie, figlia di un solone della medicina, a cui viene improvvisamente richiesta l’autopsia del suo ex generale sul fronte di guerra. Al capezzale del cadavere giunge anche l’ex commilitone Harold, oggi avvocato. La sorpresa giunge dal fatto che il defunto generale è stato avvelenato e che la figlia che ha incaricato legalmente dell’autopsia Harold e Burt viene spinta davanti ai loro occhi sotto un auto in corsa da un losco tizio che poi, in mezzo alla folla, li incolpa della morte della donna. I due fuggono ma capiscono di essere finiti in una trappola spionistica e geopolitica più grande di loro. A quel punto, e del tutto casualmente, tra ricchi signori apparentemente democratici della east coast a cui chiedere aiuto, sbuca la bella Valerie, oramai dipendente da farmaci che le ha imposto il ricco fratello (Rami Malek) per curare la sua altrettanto apparente follia.

La narrazione si apre così sul primo lungo flashback dove scopriamo come i tre si sono conosciuti nel 1918 sulle lettighe insanguinate di un ospedale del fronte, con Burt e Harold grondanti sangue e urla che si tengono per mano, e Valerie a togliere loro ossessivamente ogni scheggia di bombe, dalle squarcianti ferite sulle loro pelle, per poi conservarle. Scappati dal fronte i tre finiranno a vivere per qualche tempo ad Amsterdam, in una sorta di libera comune fatta di balli, canti e amore, fino a quando Burt non deciderà di tornare a casa. Ora però che il trio si è riformato dovrà occuparsi di sventare, con l’aiuto di un altro generale che si è battuto per i diritti dei feriti di guerra (Robert De Niro), un piano diabolico di un gruppo di industriali statunitensi che vogliono instaurare una dittatura alla Mussolini negli Stati Uniti. Appunto, si diceva dell’aggrovigliarsi continuo del filo del narrato, anche se poi tutto torna, sempre e comunque (del resto il generale interpretato da De Niro è un personaggio vero che ha realmente sventato l’assalto fascista nei primi anni trenta).

Russell, quindi, pittura strati e strati di sottotrame (la comica apparizione di due agenti segreti, il battaglione di soldati afroamericani al fronte trattato peggio degli altri, ecc…), anche se sullo sfondo, attraverso i suoi svitati antieroi – una ragazza che non sta più in piedi e con le vertigini, un altro senza un occhio, claudicante e gobbo, e un altro caricatura del buon nero civico e civile (che però mena) – vuole trasmettere un’umanità condivisa e un idealismo di pace di una purezza abbacinante. Basta prendere la sequenza, visivamente travolgente e piroettante, dell’incontro dei tre tra tagli e schegge. Lì il dolore del corpo, il male dell’uomo, il tragico del cinema vengono come sostituiti da un romanticismo tra picchiatelli, dal silenziamento dell’orrore e da un messaggio di desiderio collettivo di giustizia sociale che passa attraverso la battuta del generale interpretato da De Niro (“faccio la guerra, ma non sopporto la crudeltà”). Impossibile cogliere del tutto le sfumature umoristiche del film, ma di una cosa siamo certi: Amsterdam parla una lingua universale, quella di un cinema politico dove i cattivi tirati a lucido governano sotto la falsa patina del progressismo ma i buoni, sgangherati e impresentabili, alla fine vincono.

Amsterdam, il capolavoro più intimo, sognante e sincero di David O. Russell
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