A volte per trovare se stessi è necessario prima smarrirsi. Un paradosso che settimana dopo settimana sembra aver avvolto le sue spire intorno a Tammy Abraham. Fino a soffocarlo, fino a trasformarlo in un giocatore normale. Perché l’attaccante inglese è ancora perso nelle pieghe della passata stagione, quando i diciassette gol messi a segno in campionato gli avevano permesso di ascendere al rango di possibile dominatore della Serie A. Ora la storia appare molto diversa. D’altra parte lo aveva spiegato chiaramente Emil Cioran: “Non c’è opera che non si ritorca contro il suo autore”. Così adesso il passato prossimo a tinte brillanti è stato sovrascritto da un presente dai colori sbiaditi. Appena due reti messe a segno in dodici partite. Solo che secondo la gelida matematica degli expected goals Abraham ne avrebbe dovute segnare altre sette.

Le dimensioni del suo disagio vanno oltre la semplice contabilità dei gol realizzati. È un qualcosa di etereo e inafferrabile, che travalica il topos letterario dell’attaccante che si ingastrisce per il gol che non arriva e che può essere racchiuso nell’immagine del nove giallorosso fermo immobile, con le mani nei capelli e con gli occhi fuori dalle orbite, dopo il palo colpito davanti a una porta vuota contro il Verona. Il piano è rovesciato. Totalmente. Abraham non fa notizia per le poche reti che segna, ma per le tante che dilapida. Re Mida al contrario, l’inglese tramuta in bigiotteria tutto l’oro che sfiora. Gli errori contro Atalanta ed Hellas, con l’intero specchio spalancato, sono stati così marchiani da diventare surreali, inspiegabili, quasi conseguenza di un cupo sortilegio, di una crudele maledizione.

L’attaccante ha finito per essere considerato la zavorra della squadra. Una semplificazione troppo crudele, perché Abraham e la Roma si sono impiombati a vicenda. L’inglese è il centravanti di un collettivo che in dodici giornate ha segnato appena sedici gol. Un bottino talmente magro da consentire solo paragoni al ribasso: meno della metà delle reti messe a referto dal Napoli o tante quante quelle realizzate dalla Salernitana. La difficoltà nel creare trame di gioco armoniche è stata una delle caratteristiche di questo primo segmento di stagione della Roma. E il problema è stato solo parzialmente attutito dalla capacità dei giallorossi di andare in gol sui calci da fermo. Un paradosso per una squadra che in estate aveva inserito in organico Belotti e Dybala. O forse no.

L’innesto dell’argentino ha modificato il modo di giocare di Abraham, spingendolo in altre zone di campo, allargandolo verso la linea del fallo laterale, mettendo in evidenza i suoi difetti e nascondendo i suoi pregi. Abraham, che lo scorso anno aveva dimostrato di essere in grado sia di finalizzare che di associarsi ai compagni, si è ritrovato improvvisamente più isolato, più lontano dalla porta, più marcato dagli avversari, più costretto a stoppare il pallone e a tentare un dribbling nello stretto per srotolare la manovra offensiva giallorossa. Insomma, il primo riferimento offensivo di una squadra che non voleva dare riferimenti offensivi agli avversari.

L’abbondanza interna sembra essere un altro nervo scoperto. Qualche settimana fa Mourinho era stato chiaro: i suoi attaccanti dovevano trasformare la competizione in stimolo (“Abraham deve imparare a vivere con Belotti, tutti e due devono imparare a convivere”, aveva detto il mister). Un punto sul quale Tammy sta ancora lavorando, nell’affannosa ricerca di quella serenità tipica di chi è consapevole che la propria centralità non passa necessariamente dalla quantità di gol segnati. E se i numeri fatti registrare nella scorsa stagione pesano come un macigno sul presente, trasformando Abraham in una sorta di Ebenezer Scrooge che riceve in continuazione la visita del fantasma del Natale passato, spiegano anche alla perfezione come l’inglese sia ancora oggi il miglior attaccante possibile per questa squadra. A 25 anni, proprio nel momento più complesso della sua carriera, Tammy si gioca una fetta importante di futuro. Con la Roma. Con la Nazionale. Due realtà completamente diverse unite dalla stessa necessità: aspettarlo. Solo così si potrà rivedere quell’attaccante duttile, letale in area di rigore ma anche con il campo aperto davanti a sé, ammirato fino a qualche mese fa. In fin dei conti nelle prime righe di “Seminario sulla Gioventù” Aldo Busi scriveva: “Il peggio, una volta sperimentato, si riduce con il tempo a un risolino di stupore”. E forse, a breve, anche Abraham finirà per stupirsi per le difficoltà incontrate nell’anno strampalato col Mondiale che si gioca a novembre.

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