L’anno della Cop 27 è quello dell’addio alle politiche negazioniste dell’ex presidente Jair Bolsonaro e dell’ex premier australiano Scott Morrison, nonché dell’ascesa al trono di Gran Bretagna di Carlo III, che si è speso per i piani di abbattimento delle emissioni. Ma è anche l’anno dell’invasione russa in Ucraina, dei ferri corti tra Stati Uniti e Cina e dell’Unione europea, paladina dell’obiettivo emissioni nette zero (e più avanti sul fronte della finanza climatica), alle prese con la crisi energetica e la sete di gas. Per capire chi ha mantenuto le promesse della Cop26 di Glasgow basti sapere che solo 24 Paesi dei 193 che partecipano alla Cop hanno rivisto i loro piani climatici (Ndc, Nationally Determined Contributions, i contributi determinati a livello nazionale): parliamo del 12,5%. Questo significa che quasi l’88% non ha fatto assolutamente nulla. E sono ancora meno quelli che hanno effettivamente migliorato le loro politiche. Certo, è l’anno della Cop egiziana di Sharm el-Sheikh, al via oggi e che precede quella del 2023 a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti: questi due Paesi hanno presentato nuovi Ndc, ma è lecito chiedersi cosa stiano davvero facendo contro il cambiamento climatico.
Un anno fa la prova di forza e le promesse – Il Glasgow Climate Pact, infatti, aveva rinviato al 2022 l’adozione della roadmap per ridurre del 45% (rispetto al 2010) le emissioni di CO2 al 2030 e arrivare a zero emissioni nette ‘intorno alla metà del secolo’. Usa e Ue non hanno voluto concedere il fondo per le perdite e i danni chiesto dal Gruppo dei 77 (130 nazioni) più la Cina che, però, è ben lungi dall’essere un Paese vulnerabile o in via di sviluppo. In cambio della loro firma sul documento finale, tuttavia, Cina e India hanno voluto che l’obiettivo di eliminazione del carbone (tra l’altro, solo quello senza abbattimento delle emissioni, ndr) fosse sostituito dal concetto meno ambizioso di riduzione progressiva. Ha fatto comodo anche all’Arabia Saudita di Bin Salman, all’Australia guidata ancora da Morrison e alla Russia di Putin. Così hanno firmato anche le nazioni che all’apertura della Cop26 avevano annunciato le emissione nette zero al 2060 (Cina e Russia) e al 2070 (India). Per raggiungere questi target, però, si chiedeva la revisione annuale, già entro il 2022, degli impegni di riduzione al 2030. Anche perché, secondo il rapporto 2021 dell’Unep sul divario delle emissioni, i piani climatici dei Paesi stavano portando a un riscaldamento globale di 2,7 gradi. Il miglioramento degli Ndc, però, era volontario. E ognuno ha fatto a modo suo.
I nuovi Ndc, pochi e insufficienti – Hanno rivisto i loro Ndc appena 24 Paesi, ma molti hanno solo fornito più informazioni. Persino tra i grandi inquinatori molti non hanno presentato nuovi Contributi nazionali volontari e quelli arrivati dopo Glasgow tagliano di meno dell’1% il budget di carbonio mondiale. Significa ridurre i gas serra a fine decennio del 5-10%, mentre serve arrivare al 30-45%. Anche se attuati alla lettera i nuovi Ndc porterebbero comunque a 2,4°C di riscaldamento, in una prospettiva ottimista che include anche Ndc condizionali, ossia obiettivi che i paesi si impegnano a raggiungere, a patto che vengano soddisfatte alcune condizioni. Da qui l’allarme lanciato dal rapporto dell’Unep ‘The Closing Window’: “Con le politiche attuali il surriscaldamento rischia di raggiungere 2,8 gradi entro fine secolo”. Sempre più lontane le zero emissioni nette al 2050.
Stati Uniti e Cina, la tensione non aiuta – Stati Uniti e Cina non hanno presentato nuovi Ndc. In chiusura della Cop 26, i due Paesi maggiori produttori di anidride carbonica al mondo avevano annunciato una collaborazione. La crisi energetica ed economica e le tensioni legate a Taiwan non hanno aiutato. Biden ha faticato per fare approvare al Congresso l’Inflation Reduction Act, pacchetto da circa 370 miliardi di dollari sulla transizione energetica. Una versione meno ambiziosa del ‘Build back better act’, piano da 3.500 miliardi di dollari proposto dal presidente e mai approvato. E l’8 novembre gli Usa tornano al voto per elezioni di metà mandato i cui risultati potrebbero avere ripercussioni sul margine di azione del presidente, qualora al Congresso arrivassero più rappresentanti repubblicani. E sebbene da settimane si parli della possibilità di tornare a dialogare con la Cina in vista della Cop 27 e l’inviato degli Stati Uniti per il clima, John Kerry, abbia esortato Pechino a riprendere i colloqui bilaterali, non ci sono stati segnali di distensione. Di fatto, secondo il Climate Action Tracker, gli sforzi fatti finora dalle due potenze sono ‘insufficienti’ nel caso degli Stati Uniti e ‘altamente insufficienti’ per la Cina, rimasta fuori a Glasgow – insieme a India e Russia – anche dal Global Methane Pledge, che mira a limitare del 30% le emissioni di metano entro il 2030.
L’Unione europea, tra la guerra e il cambio di priorità – Anche l’Ue arriva alla Cop 27 senza aver aggiornato i suoi Ndc, ma nei prossimi mesi dovrebbe alzare i target di riduzione delle emissioni al 2030 dal 55 al 57% rispetto ai livelli del 1990. Secondo il Climate Action Tracker risulta ‘insufficiente’: bene il piano REPowerEU, proposto dalla Commissione Ue a maggio 2022, molto meno le reazioni di alcuni Stati membri che “in risposta all’aumento dei prezzi dei combustibili fossili, stanno fornendo sussidi per il loro consumo” e l’inclusione di gas e nucleare nell’elenco degli investimenti sostenibili della Tassonomia verde. Una decisione presa anche a seguito delle pressioni di alcuni Paesi interessati al nucleare, in primis la Francia, ma su cui ha giocato un ruolo importante la dipendenza dal gas di altri Stati membri. A maggior ragione dopo l’invasione dell’Ucraina e la volontà di smarcarsi da quello russo, che ha riportato la Germania sulla strada del carbone e l’Italia, proprio in queste ore, a sbloccare trivelle per aumentare le estrazioni di metano nell’Adriatico.
Nuovo vento in Australia e Brasile e Regno Unito – Tra i Paesi che hanno presentato nuovi obiettivi Gran Bretagna, Australia, Brasile e India. Il Regno Unito ha apportato modifiche minime. Carlo III porta con sé il peso del colonialismo, uno dei motori della crisi climatica e, a riguardo, non ha mai preso posizione, né l’ha fatto sul meccanismo del loss&damage, che aiuterebbe i Paesi più vulnerabili del Pianeta. Dopo aver rinunciato a partecipare alla Cop27, ha ospitato a Buckingham Palace un ricevimento per il passaggio di consegne tra la Cop26 di Glasgow e la Cop27 a cui parteciperà, invece, il premier Rishi Sunak. Un vero vento di cambiamento potrebbe arrivare in Australia, dopo la vittoria alle urne del laburista Anthony Albanese. Canberra ha subito messo nero su bianco l’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050 (promesso in ritardo dall’ex premier Scott Morrison), ma soprattutto il taglio di almeno il 43% (rispetto ai livelli del 2005) entro il 2030. Il piano ambientale prevede di vietare nuovi progetti per carbone e gas, ma l’Australia è uno dei maggiori esportatori al mondo di carbone (specialmente verso la Cina) e gas naturale e a Glasgow ha rifiutato di aderire agli impegni per ridurre le emissioni di metano e per eliminare gradualmente il carbone. Ancora più recente, in Brasile, la vittoria alle urne di Luiz Inacio Lula da Silva, che ha sconfitto Jair Bolsonaro. Troppo presto per fare bilanci. Lula ha detto che il prossimo governo “lotterà per la deforestazione zero in Amazzonia” e che il Brasile “è pronto a riprendere il suo ruolo di primo piano nella lotta alla crisi climatica”. Per farlo dovrà migliorare il Ndc presentato a marzo 2022, più ambizioso di quello del 2020, ma più debole rispetto ai target del 2016, prima dell’era Bolsonaro.
Quegli obiettivi poco ambiziosi – E poi c’è l’India che, ad agosto 2022, ha approvato un aggiornamento del suo Ndc, nel quale si impegna a ridurre, entro il 2030, l’intensità delle emissioni del Pil del 45% rispetto a quella del 2005. Ma a Glasgow ha chiesto di ridurre l’ambizione sui combustibili fossili e il Paese prevede di raggiungere lo zero netto di emissioni solo nel 2070. Anche Egitto ed Emirati Arabi Uniti, che ospitano la Cop quest’anno e nel 2023, hanno presentato nuovi Ndc. Il primo ha apportato miglioramenti minimi rispetto al precedente contributo nel quale, però, un target di riduzione delle emissioni non c’era affatto. L’Egitto, responsabile di oltre un terzo del consumo totale di gas fossile in Africa, continua ad aumentarne la produzione. Anche gli Emirati pianificano un aumento significativo della produzione e del consumo di combustibili fossili. E così anche il phase down è sempre più difficile. Come raccontano i dati di Ocse e Agenzia internazionale dell’Energia, nel 2021 le 51 maggiori economie mondiali hanno speso quasi 700 miliardi di dollari per i sussidi fossili, il doppio del 2020. E tra i Paesi del G20, fra trasferimenti di bilancio e agevolazioni fiscali legate alla produzione e all’uso di carbone, petrolio, gas e altri prodotti petroliferi i sussidi sono passati da 147 miliardi di dollari a 190 nel giro di un anno. Ancora prima dell’invasione dell’Ucraina.