Si tratta di un piccolo, grazioso film che ha fatto imbufalire tanta azzimata critica occidentale dove il tragico si mescola continuamente con il comico
C’è un piccolo, grazioso film che ha fatto imbufalire tanta azzimata critica occidentale. S’intitola Il mio vicino Adolf e secondo gli autorevolissimi Variety e Guardian il film diretto dal regista di origine russo-israeliana Leon Prudovsky “si abbassa a gag da Mamma ho perso l’aereo” e “vive di stupidità eccentrica”. Ecco, facciamo allora come chiede il professor Keating ne L’attimo fuggente davanti all’introduzione con grafico Prichard: strappiamo, anzi spegniamo, le due pagine web delle recensioni di mister Bradshaw e mister Debruge. Hanno visto, come si usa dire, un altro film. Poi per carità non siamo di fronte a Schindler’s list, ma nemmeno davanti a quell’ipocrita paciugo de La vita è bella.
Fino a quando Frau Kaltenbrunner mostra carte del catasto dov’è scritto che Herzog possiede 24 metri quadri di terreno in più, guarda caso proprio un ampio quadrato di terra nel giardino di Polsky con la pianta di rose. Apriti cielo. A questo punto tra i due è guerra aperta. Ma aspettate un momento. Polsky si accorge che quell’Herzog è qualcuno di noto, di importante, di famosissimo, anzi è proprio lui: il Fuhrer. Inevitabile che per il sopravvissuto alla morte nei campi di concentramento l’ossessione di smascherare quell’anonimo e assassino vicino di casa diventi l’unico obiettivo di ogni ora del giorno: consulterà biografie, foto e informazioni di ogni genere su Hitler, oltre che utilizzare uno sgangherato treppiedi con teleobiettivo nascosto dietro una finestra per catalogare prove certe sulla sua straordinaria intuizione da salvezza del mondo. Che poi tra i due vecchi nasca una onesta amicizia dietro alcune sfide a scacchi e che il desiderio di vendetta si impasti alla loro fragilità psicofisica (qualcosa che ricorda I nostri anni di Daniele Gaglianone) non è proprio il turning point che ci si poteva aspettare.
Il mio vicino Adolf è una macchina perfetta di suspense e umorismo sui generis dove il tragico si mescola continuamente con il comico (Prudovsky parla di “parabola chassidica”) facendo spesso baluginare dimensioni dell’assurdo e del grottesco. Insomma, oltre ad una sacrosanta sospensione dell’incredulità (è lui o non è lui, diceva un celebre comico tv) c’è proprio un impianto stilistico peculiare caratterizzato da uno sguardo che si stringe spesso in soggettiva sul set interno/esterno delle due casupole confinanti senza concedersi trasferte spaziali (giusto un paio) o buchi temporali (a parte l’introduzione), battendo al ritmo inesausto e apparentemente convenzionale di primi piani mai identici in campo e controcampo. Il mio vicino Adolf è tutto in questa preziosa traiettoria espressiva di senso dove odio e amicizia si danno di gomito ridacchiando e, sia chiaro, senza mancare mai di rispetto alla storia con la famosa s maiuscola. Fotografia monocromatica azzurro-grigio pastello da cinema di genere dell’ottimo Radek Ladczuk. Il nostro consiglio è vederlo. Così capiamo se ha ragione ilFattoquotidiano.it o il Guardian.