di Stefania Rotondo
L’ideologia di Nicholas John Spykman ispira ancora oggi la politica estera americana e condiziona le sorti del mondo. Dal secondo dopoguerra le parole d’ordine americane sono ‘dominare i mari’. Da un certo momento in poi la conquista dell’Heartland, che ha unito il Mediterraneo con l’Indo-Pacifico, non è bastata più e si è aggiunto l’obiettivo di conquistare i mari più strategici del mondo per neutralizzare la Russia, da sempre dominatrice dal Mar Baltico fino quasi alla California, e che ora ambisce al Canale di Suez, e quindi al Medio Oriente e al Nordafrica.
La Crimea per la Russia a tale scopo è fondamentale. È in tale ottica che Vladimir Putin punta alla sopravvivenza della Federazione e se continuerà a sentirsi minacciato, la guerra si farà sempre più cruenta. Lo zar ha parlato sempre più spesso della guerra ucraina come prodotto dello scontro tra la Russia e l’Occidente multipolare imputando a quest’ultimo l’anelito dell’annientamento russo. Ma nel discorso che ha tenuto qualche giorno fa al Valdai Club ’22 pare aver teso una mano a un accordo, al fine di ‘risolvere le contraddizioni per un nuovo ordine mondiale, per orchestrare l’armonia della civiltà umana’. Ai più esperti le parole di Putin paiono aver aperto a una possibile soluzione non definitiva al conflitto, ma che potrebbe portare a una de-escalation o a una tregua. Ma non solo. Potrebbero essere ricollegate all’auspicio ‘rosso’ dello zar che le elezioni di Midterm americane potrebbero innescare in merito al compromesso.
La ricandidatura di Donald Trump alle elezioni del ’24 è data quasi per certa. Ha dichiarato le sue intenzioni al comizio in Iowa, il primo caucus per ottenere la nomination del partito. Il New York Times giorni fa ha rivelato ‘il Piano Mariupol’, un’ipotesi di accordo del 2016 tra Putin e Trump. Il Cremlino avrebbe favorito l’elezione del tycoon ottenendone l’appoggio per uno smembramento dell’Ucraina. Tredici mesi dopo l’arrivo di Joe Biden al governo, i carri armati russi invasero Kiev.
La politica estera di Trump spostò il focus americano dall’area atlantica a quella pacifica, al fine di riscrivere le relazioni tra Usa e Cina, nell’intenzione di colmare il deficit commerciale tra le due potenze, togliendo così a Washington il sostegno dei suoi tradizionali alleati e consentendo alla Russia di avere mani libere per il conseguimento dei suoi piani imperialistici. È questa la speranza di Putin: un ritorno a una ‘nuova’ politica estera americana, un cambiamento di posizione Usa nella guerra con le elezioni di Midterm. A Kiev cresce l’apprensione su una probabile frenata di aiuti militari. I segnali giungono non solo dall’ala repubblicana, ma anche da quella democratica. La scorsa settimana trenta membri del Cpc, il gruppo che riunisce i progressisti democratici al Congresso, hanno chiesto a Biden di abbinare il sostegno all’autodifesa dell’Ucraina a uno sforzo diplomatico per un cessate il fuoco attraverso colloqui diretti con la Russia.
Biden ha accettato la sfida alla Russia perché il centro della sua politica estera non è il Dnepr, ma l’Elba in Germania. L’obiettivo è quello di evitare che Putin frantumi il sistema euroatlantico che fa da perno al potere americano. Senza Europa non c’è influenza americana sul mondo. La guerra in Ucraina ha rinsaldato il controllo sul Vecchio Continente e la Nato, data per morta, ha interrotto i rapporti tra Germania e Russia. Mantiene un equilibrio fra l’anima polacco-baltica e la franco-tedesca-italiana. Ma Biden questa volta rischia grosso. A casa sua, l’inflazione galoppa e si aspettano disordini sociali.
Dopo venti anni di guerre prive di senso strategico, gli americani sono convinti che la loro minaccia non sia la Russia o la Cina, ma siano gli altri americani che la pensano diversamente da loro. La priorità dell’amministrazione Biden è sconfiggere la Russia e la Cina, per evitare che gli americani si facciano la guerra tra loro. Perché come dice Umberto Eco: ‘una delle disgrazie di un Paese è non avere veri nemici’.
E Putin aspetta l’8 novembre.