Lanciare questo appello diretto al ‘padrone di casa’, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, non è cosa da poco. L’attivista dei diritti umani, 41 anni tra dieci giorni, è stato arrestato tre volte in passato, ma l’ultima risale al settembre 2019. Da quel momento è rimasto in carcere senza processo, ben oltre il limite massimo concesso dalla legge del Paese nordafricano
Mentre il pianeta si interroga sul suo futuro, con i Paesi riuniti a Sharm el-Sheik per la COP27, nella prigione di Wadi al-Natrun l’attivista egiziano Alaa Abdel Fattah, si sta lentamente spegnendo. Domenica, dopo oltre 200 giorni di sciopero della fame, Abdel Fattah ha iniziato anche lo sciopero della sete, mettendo a serio e immediato rischio la sua vita. Si parla di temi decisivi per il pianeta ma essendo l’evento ospitato in Egitto non si possono tralasciare i diritti umani. I vertici delle Nazioni Unite il loro passo sulla questione specifica lo hanno fatto: “Chiediamo il rilascio immediato di Abdel Fattah”, l’attivista britannico-egiziano in carcere da mesi che si sta sottoalimentando da aprile, hanno detto. Parole a cui hanno fatto eco quelle del cancelliere tedesco, Olaf Scholz: “Dobbiamo prendere una decisione ora, un rilascio deve essere possibile in modo che questo sciopero della fame non abbia un esito fatale”.
Lanciare questo appello diretto al ‘padrone di casa’, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, non è cosa da poco. L’attivista dei diritti umani, 41 anni tra dieci giorni, è stato arrestato tre volte in passato, ma l’ultima risale al settembre 2019 (dopo le prime proteste di strada in Egitto dalla Rivoluzione di piazza Tahrir del gennaio 2011, il 40enne è finito in carcere anche al tempo di Hosni Mubarak e nel breve periodo della reggenza Morsi dei Fratelli Musulmani), quando alla guida del Paese c’era già il generale golpista. Da allora sono passati più di tre anni e Abdel Fattah resta in carcere (dalla famigerata prigione di Tora, sezione Skorpio II, a quella nuova di zecca molto a nord della capitale) in detenzione preventiva, dunque in attesa di giudizio: termine che va oltre la legge egiziana che fissa il massimo a due anni.
La strategia del regime del Cairo è chiara, sfinire il dissenso con arresti indiscriminati non sostenuti da accuse credibili. A metà agosto 25 detenuti in attesa di giudizio sono stati rilasciati in base alla decisione del Comitato Presidenziale per la Grazia, ma tra questi non c’era Alaa. A Sharm el-Sheik per i lavori della COP27 è arrivata una delle due battagliere sorelle di Abdel Fattah, Sanaa, anche lei vittima del regime egiziano che l’ha arrestata e rinchiusa in carcere nel giugno del 2020. Parlando alla Deutsche Welle, ha dichiarato che le condizioni del fratello stanno peggiorando e che è ormai in fin di vita, chiedendo sostegno alla comunità internazionale. L’altra sorella, Mona, è rimasta per mesi in sit-in permanente davanti al Foreign Office di Londra chiedendo al governo britannico di fare il possibile per la liberazione di suo fratello. Una protesta accorata che ha portato a un risultato importante. La stessa Mona Seif la settimana scorsa ha finalmente ricevuto una lettera dal nuovo primo ministro inglese, Rishi Sunak: “Stiamo seguendo il caso del vostro familiare, per noi è una priorità risolverlo vista la posizione di difensore dei diritti umani e cittadino britannico. Continuerò personalmente a pressare il presidente al-Sisi al fine della sua liberazione”, ha scritto nella lettera del 5 novembre scorso l’inquilino del 10 di Downing street. In effetti dallo scorso anno Alaa Abdel Fattah è diventato ufficialmente britannico dopo aver ricevuto l’ok alla cittadinanza.